Due domeniche fa sono tornato a vedere/sentire un concerto dal vivo. Non ho fatto bene il conto, ma potevano benissimo essere passati due o tre anni dal precedente. Insomma dopo un bel pò di tempo ho rivissuto il rituale e l’esperienza dell’andare a un concerto, e che concerto: l’artista non ha bisogno di presentazioni.
Pur non riuscendo a definirmi “springsteeniano” in senso stretto (non conosco bene la discografia o molte sue canzoni né i testi a memoria), non faccio fatica a riconoscere che Bruce Springsteen (e la sua E-Street Band) è il top per generosità, carisma ed empatia con il suo pubblico. Dunque una grande ripartenza, un concerto assolutamente imperdibile. E infatti ci sono andato.
E’ stato “solo” il mio secondo concerto del Boss, il primo lo avevo visto nell’ormai lontano 2016 sempre qui a Roma al Circo Massimo e ricordo benissimo che fu per me (e per la mia amica Zelda che era con me) un’esperienza inattesa, uno shock: oltre 3 ore di esibizione (“Niente, tocca cacciallo”…), una carica e una energia pazzesche, e un coinvolgimento misto a partecipazione da parte del suo pubblico che davvero non ha eguali. Almeno, io non ne ho mai visti in quel modo lì.
Ricordo a tal proposito infatti di essermene venuto via con questa sensazione: “Wow, che botta! Ho capito perché i fan dicono che esistono due tipi di persone nel mondo, chi ama Bruce Springsteen e chi non l’ha mai visto dal vivo…”. E da allora ho anche fatto caso al fatto che i fan del Boss sono diversi dagli altri, rappresentano una community come non ce ne sono altre, stretta intorno alle parole, alle difficoltà quotidiane, ai sogni di riscatto cantate con tanta poesia e forza dal suo eroe.

Detto quasi per inciso, a mio modestissimo parere quello dell’altra sera è stato uno show meno travolgente, o almeno abbastanza diverso dal precedente. Non ho certamente l’esperienza dei fan di vecchia data, accanto a noi al Circo Massimo c’era gente con 20+ concerti del Boss: parlavano di Milano nell’85 (primo concerto italiano in assoluto) o di Zurigo 1981 (quando Springsteen era già abbastanza famoso, ancora in Italia non aveva mai suonato ma i primi fan andarono a vederlo oltre confine). Storie che alimentano la leggenda di un artista noto per la sua travolgente energia live, una cosa che non si riesce a spiegare ma che avevo vissuto e toccato con mano in prima persona nel 2016.
Mi aspettavo un pò la stessa cosa, invece stavolta nel corso dell’esibizione ci sono stati anche momenti di nostalgia, di riflessione sul tempo che passa e sulla vita che finisce. E’ stato un grandissimo show, come da tradizione e da personaggio. La band (ho contato 17 musicisti sul palco, Boss compreso) ha l’affiatamento e l’impatto di una big band, il termine rock dunque è persino un pò riduttivo in questi casi. Ma il tutto mi è sembrato più composto e maturo rispetto al precedente che ricordavo e ci può senz’altro stare, considerando l’età e la parabola artistica del personaggio. In questo articolo Ernesto Assante lo spiega alla sua maniera, di meglio onestamente non saprei fare. Basti dire che il concerto è finito così…
Ma questo non vuole essere uno dei tanti articoli su un concerto di Bruce Springsteen, vi voglio anzi proporre un accostamento azzardato e forse un pò estremo con un’altra performance live. Mi ha colpito molto la notizia del concerto dei Gorillaz in realtà aumentata. Se seguite il blog sapete che mi piace la musica e sono un osservatore di cose tecnologiche, dei fenomeni di digital transformation. Bene, questa cosa è un connubio delle due.
Chi sono i Gorillaz? Roba da nerd, mi verrebbe da rispondere. In due parole, si tratta di una band virtuale all’incrocio tra musica e fumetti, nata infatti dalla collaborazione tra Damon Albarn (noto per essere il frontman dei Blur) e il fumettista James Hewlett. Sin dall’inizio, contaminano i mondi mediali della musica, dei fumetti e del web in un progetto artistico cross-over molto originale e sempre all’avanguardia, bisogna ammetterlo (qui trovate la storia della band so far).
Ed ecco il video di cui vi parlavo, l’esecuzione live del nuovo singolo della band al Coachella Festival (uno dei festival rock più rinomati). Un concerto misto ad elementi di realtà aumentata, con l’apparizione degli avatar della band visibili attraverso un’app e sincronizzati perfettamente con la musica. Di grande impatto, Albarn e socio non si smentiscono affatto. Anzi, per l’ennesima volta riescono a innovare e spostare un pò più in là la frontiera di quello che fanno (qualunque cosa sia). Qualche dettaglio in più circa la tecnologia che ha reso possibile una esperienza così spiazzante lo trovate in questo articolo, vi basti sapere che c’entra Google.
Vedendolo lì per lì ho pensato, come già altre volte (ad esempio a proposito dell’esibizione di Max Gazzé che rifaceva i Pink Floyd a Pompei) “Naaa, non può funzionare… è una roba che vedi nello schermo di uno smartphone, è un’esperienza di fruizione poco interessante e troppo limitante”. Poi però appunto sono stato al concerto di Springsteen… torniamoci un attimo su.
In piedi posto unico, per buona parte dello show non ho visto molto altro se non i musicisti proiettati su uno degli schermi giganti. La figurina di Bruce, per intenderci, la distinguevi abbastanza piccolina tra una testa e l’altra laggiù sul palco, neanche tanto distante a dire il vero. Ma se volevi cogliere un’espressione o un gesto esecutivo, o guardavi i maxi schermi oppure niente. Questa cosa succede nella quasi totalità dei concerti di questo tipo (ACDC a Modena nel 2015 praticamente la stessa cosa), qualunque frequentatore seriale di concerti “posti in piedi” sa bene di cosa scrivo. Ed è frustrante.
In più, tutti con lo smartphone e le mani protese che vogliono (vogliamo, un paio di video di solito li faccio anch’io) catturare il proprio pezzo di concerto, la propria canzone preferita per potersela non tanto rivedere, ma molto spesso pubblicarla sui social o da qualche altra parte. Alcuni esagerano davvero, lo fanno con una caparbietà tale da disturbare gli altri spettatori sconfinando nella maleducazione. Anche qui, sono sicuro di non dire nulla di nuovo. Il risultato paradossale è che mi sono ritrovato per lunghi tratti del concerto di Springsteen a vedere il concerto sullo schermo dello smartphone di quelli che mi stavano davanti e che, si badi bene, riprendevano i maxi schermi (non il concerto vero e proprio).
Così ho pensato “Beh… se la gente ormai guarda il concerto col telefonino, allora in effetti è assolutamente pensabile arricchirne la fruizione con contenuti di realtà aumentata”. Anzi è pure fico, lato utente. Tanto lo usano lo stesso, lo smartphone; tanto vale allora lì dentro fargli trovare qualcosa che a occhio nudo non si vede.
E ho pensato anche un’altra cosa. Che forse ai Pink Floyd (se mi leggete sapete già che sono floydiano in un modo irragionevole), che ai loro tempi erano sempre all’avanguardia, sempre pronti a sperimentare, sarebbe piaciuta molto, questa commistione di tecnologia e musica, questa esperienza live aumentata. Se questa roba fosse stata disponibile ai loro tempi, probabilmente avrebbero voluto implementarla nei loro show per offrire al pubblico un’esperienza ancora più coinvolgente e multimediale.
Del resto Roger Waters e soci sono stati tra i primi ad arricchire le loro performance, sin dai primi giorni, ad esempio con gli ormai proverbiali light show, o con un sound quadrifonico che ruotando nella sala sorprendeva e rapiva lo spettatore. E dal 1973 alle loro spalle c’è sempre stato Mr Screen, lo schermo circolare che mostrava gli immaginifici, surreali e psichedelici filmati di Storm Thorgerson: erano un tutt’uno con la musica, ne rappresentavano il commento visivo, la amplificavano. Tutte queste trovate sono sempre state parte integrante del pacchetto Pink Floyd, per così dire, dell’esperienza-concerto.
Per dirla tutta, il video YT dei Gorillaz a Coachella mi ha fatto venire in mente alcune vecchie e rare foto del tour dell’album Animals dei Pink Floyd: era il 1977, e sopra il palco facevano volteggiare enormi palloni gonfiabili che ritraevano, in modo grottesco e con intenti satirici, la famiglia americana media. Poi arrivò The Wall, che letteralmente segnò uno spartiacque nella storia dei concerti rock. Se avessero qualche anno in meno e fossero ancora nel vivo della loro parabola artistica, sicuramente nei loro concerti ci sarebbe un impiego avanguardistico della realtà aumentata. Altro che palloni appesi ai cavi…

Questa cosa è ancora più evidente nel tour attuale di Roger Waters (che sono riuscito a non andare a vedere), dove gli schermi sono a croce al centro del palazzetto e proiettano di tutto. Chi c’è stato dice che ancora una volta lo zio Rog è riuscito a superarsi. Non faccio fatica a crederlo, ma stavolta non ho potuto scendere a patti con la mia coscienza: troppo revisionismo della storia floydiana (che appartiene a tutti i fan, oltre che agli altri membri della band, non solo a lui), c’è un limite a tutto, anche all’affetto che provo per questo mio idolo (comunque visto una decina di altre volte nel corso degli anni).

Ma per una volta devo dire che qualcuno lo ha superato, almeno concettualmente. Il suo impiego di tecnologie audio-video è ogni volta più magniloquente, ma ‘sta storia della realtà aumentata dei Gorillaz è vera avanguardia, molto à là Pink Floyd. Poi l’esperienza utente è ancora una ciofeca, e non è certo un dettaglio. Dover guardare tutto dentro lo schermo di un telefonino non è il massimo del comfort; non stiamo parlando di un’esperienza avvolgente e memorabile, è chiaro.
Ma domani magari faremo tutti largo impiego di dispositivi wearables, tipo occhiali di realtà aumentata, che abiliteranno una soddisfacente esperienza di fruizione. La tecnologia per consentirlo non è poi così lontana. E allora capite che la musica cambia (è proprio il caso di dirlo). Sarà la volta che finalmente la gente smetterà di guardare lo smartphone durante un concerto e di rompere i coglioni a chi – come me – gli sta vicino e vorrebbe vedere qualcosa con i suoi occhi.
Comunque torniamo a bomba al presente, al Circo Massimo due domeniche fa. I musicisti entrano uno per volta e prendono posizione. Max Weinberg alla batteria innesca dal nulla un groove semplice e travolgente come il rock, il charleston semi-aperto e sfarfallante suona la carica. Poi il Boss a squarciagola urla il suo proverbiale “One-two-one-two-three-four”… Bruce Springsteen a Roma ha iniziato così. Signore e signori, su il volume: rock and roll!
Ti segnalo questo bellissimo racconto di un concerto di Springsteen: https://lapinsu.wordpress.com/2013/09/25/io-e-bruce-3-theres-a-rockers-special-on-tonight/. Che ne pensi?
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Molto intenso, tanta devozione e riesce a trasmetterla. Mi piacciono questo tipo di racconti, tra l’altro ho più o meno la stessa età. Grazie per il commento. 🙂
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