Una performance musicale dal vivo in un luogo morto (e sepolto, per molti secoli, sotto la lava del Vesuvio), un concerto in un anfiteatro di pietra deserto e senza pubblico. Dev’essere stato questo concept molto accattivante e un pò cervellotico, proposto dal regista e ideatore Adrian Maben, a convincere i Pink Floyd ad aderire al progetto.
Sto parlando ovviamente dell’enigmatico film concerto del 1971, presentato nella sua prima versione a un festival cinematografico l’anno successivo, Pink Floyd Live at Pompeii. E, come per il Remix di Animals, ne parlo oggi sulla scorta di una notizia di stretta attualità.
Max Gazzè, con una band di musicisti di tutto rispetto, omaggerà quel film concerto che in qualche modo ha fatto storia proponendo uno spettacolo in cui suonerà 14 brani dei Pink Floyd proprio nell’anfiteatro di Pompei il prossimo 21 ottobre. Qui trovate la news del mitico Ernesto Assante (grande conoscitore e appassionato floydiano) con cui un pò pomposamente, come sempre accade in questi casi, si presenta l’evento.

Ora, da appassionato dei Pink Floyd la notizia ovviamente ha catturato la mia attenzione e mi ha reso ancora più simpatico il bravo Max. Non è la prima volta che un autorevole musicista dei giorni nostri dichiara ufficialmente la propria ammirazione per i Pink Floyd o li omaggia, tuttavia ogni volta provo un misto di sorpresa e soddisfazione. Fa piacere, ecco; non so spiegare neanche io perché, in fondo non dovrebbe. Davvero non ho bisogno di social proof in proposito.
Se Gazzè vuole tributare un omaggio alla band o al film (o a entrambi), se vuole percuotere furiosamente il gong come Roger Waters in una delle scene più memorabili del film, è liberissimo di farlo. Ben venga, per curiosità ho anche piacere di vederlo e ascoltare con quale intenzione musicale riproporranno i brani scelti. Personalmente, preferirei una esecuzione il più fedele possibile e rispettosa dell’originale: in questo casi, quando un musicista è bravo tende in qualche modo a personalizzare le sue parti, convinto di portare valore aggiunto con la sua interpretazione, ed è il modo migliore per rovinare la magia del brano. Ma il punto non è questo.
Trovo ingenuo il fatto che abbiano montato dei contenuti di realtà aumentata intorno alla performance musicale vera e propria. Gli spettatori, inquadrando il palco col telefonino, vedranno nello schermo elementi architettonici ulteriori e non visibili a occhio nudo. Vero è che l’abitudine di riprendere con lo smartphone spezzoni di concerto è una abitudine (discutibile e persino fastidiosa, oltre un certo limite) molto diffusa. Ma onestamente, al di là di un passaggio musicale, o di un pezzo che amo e per me particolarmente significativo, il concerto me lo guardo con gli occhi, non con il telefonino. Almeno io continuo a pensarla così.
Come esperienza utente, poi, la fruizione di contenuti virtuali è ancora più discutibile se si guarda il tutto in streaming sulla piattaforma ITsART, dedicata all’arte e alla cultura italiana e promossa dal Ministero della Cultura, disponibile su Smart TV, PC, Smartphone e Tablet. Di fatto, le parti di realtà aumentata in questo caso d’uso (sarebbe meglio dire di fruizione) non sono proprio distinguibili. A meno che non abbia frainteso io, e infatti aspetto di vedere qualcosa in proposito e capire meglio.
Sulla base delle informazioni disponibili la definirei come una cosa roboante e un pò ingenua, più che un vero e proprio esperimento di metaverso (non lo hanno detto, ma è a quello che si allude). I presupposti per parlare di esperienza immersiva non mi pare ci siano. Ma la parola va molto di moda, e gli ideatori devono aver pensato che evidentemente ne valeva la pena: è l’unica spiegazione che riesco a darmi.
Così più che di questo evento, mi viene di parlare del film concerto originale, che per molti decenni (prima dell’avvento di YouTube) ha rappresentato praticamente l’unico documento audiovideo dei Pink Floyd dal vivo. Inutile dire che generazioni di fan lo hanno letteralmente consumato. Poi è arrivato appunto YT e ora è tutto fruibile, anche cose che esistevano da molti anni ma che, non bazzicando il circuito delle pubblicazioni ufficiali, al grande pubblico non c’erano mai arrivati. E sono uscite fuori gemme meravigliose (come ad esempio questa Careful with that axe Eugene), quindi grazie YT: decisamente il mio social media preferito.

Dopo la prima presentazione di Pink Floyd Live at Pompeii, il regista Adrian Maben ne ha fatto una extended version e, in anni più recenti, anche un director’s cut. Personalmente preferisco il film concerto originale (quello senza interviste o divagazioni spaziali, solo le canzoni), ancorché ricco di incertezze e contraddizioni. Alcune di esse hanno indubbiamente contribuito alla sua fama e al fascino duraturo.
Un esempio? One of these days: l’unico membro della band che si vede è Nick Mason, le camere hanno ripreso ogni smorfia, ogni istante di una performance parossistica con tanto di perdita della bacchetta al minuto 4:45 che è passata alla storia. Se non ci fosse stato un banale inconveniente (i nastri con le riprese degli altri componenti a quanto pare andarono misteriosamente smarriti), il montaggio sarebbe stato sicuramente un altro. Poi i batteristi non se li fila mai nessuno. Risultato: inarrivabile.
Oppure il fatto che tre dei sei brani sono stati filmati in realtà in studio a Parigi due mesi dopo. Il film ha avuto una gestazione lunga e non lineare, il minutaggio legato alle riprese a Pompei dell’ottobre precedente era insufficiente per un lungometraggio, così il regista concordò con la band di riprenderli in studio e aggiungere questi brani e queste riprese a quelli già girati nell’anfiteatro della cittadina campana. Ma zio Rick nel frattempo aveva cambiato look, figura infatti decisamente sbarbato mentre nelle riprese di Pompei sfoggiava una barba ispida che gli donava un look più rock e intrigante.

E quindi i brani suonati all’anfiteatro di Pompeii di fatto sono solo 3. Echoes, spezzata in due per aprire e chiudere il film; la già citata One of these days, e una meravigliosa esecuzione di A Saucerful of Secrets, una suite in quattro parti del 1968 al confine tra sperimentalismo e psichedelia. Una versione live di questo brano era pure presente nel secondo disco di Ummagumma, la registrazione risale al 1969, diversi anni prima dei giorni di Pompei, e dunque è interessante valutarne anche l’evoluzione esecutiva.
La versione suonata nel 1971 a Pompei è più frettolosa nella prima parte (“Storm Signals”), sviluppata invece in modo molto paziente e meticoloso in Ummagumma. Poi arriva il “pandemonio sincopato” dei tamburi di Mason, delle scariche elettriche effettate della chitarra di Gilmour, del piano suonato con gli avambracci da Wright, soprattutto dei furenti colpi al gong sinfonico di Waters. Ma poi c’è l’intermezzo di “Something Else”, che sfuma infine nella catarsi corale di “Celestial Voices”.
Questo movimento inizia con il soave e mistico suono delle tastiere Farfisa di Wright e si conclude con Gilmour che, capelli al vento, interpreta una parte vocale che nella studio version del 1968 era nientemeno che un canto gregoriano. La batteria di zio Nick, assente nella pubblicazione originale, qui ci sta un gran bene: quando entra dà peso e tiro a questo epico climax finale, caratterizzato da un incedere maestoso frutto del contributo di tutti e quattro i musicisti, in pieno flow esecutivo in mezzo a folate di vento e mulinelli di sabbia in un anfiteatro completamente deserto.
La cosa che mi fa più pensare è che gli echi di quel tempo distante (cit.) sono arrivati chiari e forti fino ai giorni nostri. Gilmour nel 2016 si è esibito da solista due volte nell’anfiteatro romano di Pompei, ma lo show non aveva poi molte somiglianze con quello che fece a inizio anni ’70 con i compagni di band. E’ stato un concerto nel senso più pieno e tradizionale del termine: il pubblico c’era (meno di tremila persone), e ha pagato un prezzo record per il biglietto.
Stavolta inoltre l’anfiteatro era illuminato da giochi di luce e fuochi d’artificio che, insieme alla silhouette minacciosa del Vesuvio sullo sfondo, hanno contribuito alla particolare atmosfera e alla magia dell’evento. L’unica canzone presente nelle tracklist di entrambi i concerti è proprio One of these days, il tutto è immortalato nel suo dvd David Gilmour Live at Pompeii: must have.

E zio Nick Mason, con il suo progetto musicale solista Nick Mason’s Saucerful of Secrets ormai in giro dal 2018, dopo lo stop forzato imposto dalla pandemia, quest’anno ha ripreso a girare e il nome del tour – indovinate un pò – è Echoes Tour. Lui ripropone il repertorio dei primissimi anni e album della band, fino a prima The Dark Side per intenderci, il disco della consacrazione planetaria che poi di fatto li ha resi mainstream. Scelta legittima e originale, anche se obbligata: tutto il resto del repertorio floydiano era stato già abbondantemente suonato live nei decenni dagli altri membri della band (oltre che da migliaia di cover band in ogni parte del mondo, come dice sempre sardonicamente anche lo stesso Nick in uno dei suoi interventi al microfono durante il concerto). Il tutto è immortalato nel suo dvd Live at the Roundhouse: nice to have.
Il suo spettacolo l’ho visto nel 2019 all’auditorium di Roma insieme a mia sorella e devo dire di averlo trovato molto piacevole, di aver apprezzato soprattutto la scala contenuta e intima dell’evento, che mi ha consentito di vedere uno dei miei idoli suonare “da qui a lì”. Una bella emozione, considerate che la prima volta lo vidi (si fa per dire) nel ’94 alle piscine di Cinecittà con i Pink Floyd “a tre”: concerto memorabile (ne parlo qui), ma praticamente ero a non meno di 200 metri del palco. Certo l’allestimento e lo stesso drumkit stavolta erano un pò sopra le righe, per così dire, ma evidentemente volevano richiamare l’estetica psichedelica che ha caratterizzato i primi anni della band e quindi in qualche modo ci può stare.
Ma gli echi di cui parlo sono più che altro quelli legati al fatto che questi 4 musicisti, la loro arte, le cose che hanno fatto, abbiano saputo riscontrare un gradimento musicale senza tempo, profondo e duraturo. Come è evidente dallo spunto iniziale legato all’attualità, stiamo parlando di una fama, una popolarità, un fascino magnetico i cui echi paradossalmente aumentano col passare degli anni anziché affievolirsi.
E la ragione è difficile da spiegare. Alcune cose che facevano erano indubbiamente stravaganti, geniali e molto suggestive. Ma è una risposta un pò vaga e insoddisfacente, devo ammetterlo. Anche la mia compagna una volta me l’ha chiesto, “Perché i Pink Floyd piacciono così tanto alla gente?!” Se avete una vostra teoria in proposito, e vi va di farlo, potete scriverla nei commenti. Io lì per lì non ho saputo dare una risposta, almeno non una sola… insomma è una lunga storia, una storia lunga più di 50 anni.