Specializzazione: miopia di marketing o scelta strategica consapevole?

Il Digital marketing ha fatto tanta strada, mi verrebbe da dire che macina kilometri a un ritmo forsennato. Se vai, che ne so, in vacanza a Dubai una settimana con la famiglia e ti scolleghi dal flusso quotidiano di aggiornamenti sul mondo Digital, quando poi provi a rientrarci hai la sensazione di essere sceso da un treno in corsa.

Tuttavia sono convinto che ogni tanto tornare ai classici fa bene. Ok il futuro, ma guardarsi indietro ogni tanto è necessario per capire dove e come siamo arrivati ad essere quello che siamo oggi. Io resto convinto di quello che scrissi nell’ormai lontano primo articolo di questo blog: marketing e digital marketing in fondo sono la stessa. Il secondo è l’evoluzione, in un mondo sempre più digitale, del “vecchio” marketing e dei suoi principi di fondo, di un qualcosa che è innanzitutto un orientamento, un approccio, una forma mentale.

Certo, la digital transformation porta in dote nuovi scenari, framework, canali e strumenti. Ma i concetti di base del marketing non è che perdono validità, restano una lente di analisi che – se la sai maneggiare – ti fornisce categorie interpretative e operative per l’ipercomplessa e ipetecnologica realtà digitale in cui siamo immersi. E per capire i mercati, i modelli di business, le scelte competitive anche nei vari settori a suffisso -tech che sono nati nel frattempo (travel-tech, ad-tech, fin-tech e via discorrendo).

Così rileggevo i contributi di alcuni autori passati alla storia come padri fondatori del marketing come disciplina. Kotler ovviamente, sempre. Drucker sul management, ma anche Levitt sulla miopia di marketing e sul ciclo di vita del prodotto. E Porter sul vantaggio competitivo e sul marketing strategico. E mi è venuto in mente un possibile cortocircuito teorico tra questi ultimi due in particolare, senza peraltro riuscire a venirne a capo. Ma andiamo con ordine.

Invece di pensare al tuo prodotto e alle sue caratteristiche, pensa alla necessità che spinge il cliente ad acquistarlo. Le persone non vogliono comprare un trapano con punta da 6 millimetri, vogliono un foro da 6 millimetri.

Theodore Levitt

Uno dei contributi più incisivi e longevi di Theodor Levitt (a cui si deve la messa a fuoco dell’orientamento al cliente e dunque del marketing concept) riguarda quella che nel 1960 battezzò con il termine “marketing myopia”, vale a dire l’atteggiamento di una azienda che si crogiola sui suoi trionfi passati e presenti ignorando i cambiamenti più o meno sotterranei in atto nell’ambiente di riferimento.

Così, da una posizione di assoluto dominio del suo settore, può ritrovarsi all’improvviso in serie difficoltà. E a non avere più un futuro, visto che quello che una volta era il suo mercato ora appartiene ad aziende che nel frattempo sono state capaci di innovare, magari basando la loro offerta su una inedita combinazione tecnico-economica di fattori produttivi, o di servire in modo nuovo e creativo le esigenze della clientela che nel frattempo sono mutate. Tipicamente la tecnologia ha dimostrato di saper essere un potente acceleratore di cambiamenti di questo tipo, a volte in modo dirompente altre in modo incrementale.

Essere leader di mercato è fico. Ma può portare a non ascoltare i clienti, credere con aprioristica sicumera (o peggio ancora supponenza) di essere i migliori. E ancora a non sottoporre a revisione e miglioramento continuo i propri processi. Si rischia di ignorare le opportunità e accumulare ritardi a volte fatali rispetto ai concorrenti. Insomma la vanità e la pigrizia portano a non avere le “antenne dritte”, a perdere contatto e sintonia con i propri clienti. In breve, ad avere una visione miope e ignorare il cambiamento, per risultarne poi travolti.

Gli esempi in proposito non mancano nella storia del business, da quelli ormai storici ai giorni nostri. Blockbuster commerciava vhs, oggi c’è lo streaming. Kodak basava il suo business sulle pellicole fotografiche, oggi le foto si condividono sui social. Nokia sui telefonini cellulari, diventati preistoria in poco tempo dopo che un certo Steve Jobs mise a fuoco il concetto di smartphone.

Uno sviluppo molto recente del concetto si ritrova nel fortunato libro di Clayton Christensen dal titolo “Il dilemma dell’innovatore”, che evidenzia come i colossi dell’industria globale spesso falliscano non tanto a causa di una miopia strategica, ma piuttosto a causa di strategie dettate dalla prudenza e poco inclini all’innovazione proprio in virtù della loro posizione di forza. Il pensiero non può che andare ad Alphabet (Google), che, nonostante sul tema dell’Intelligenza Artificiale già da anni portasse avanti molti progetti, ha dato l’impressione di subire l’iniziativa di Microsoft e reagire alle mosse del concorrente piuttosto che guidare l’innovazione.

Christensen si riferisce per lo più ad aziende di grandi dimensioni. Ma, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il rischio della miopia di marketing non riguarda solo loro. Certo, le grandi aziende hanno una organizzazione più strutturata e rigida. Normalmente necessitano di tempi più lunghi per intuire i cambiamenti, spesso reagiscono ad essi piuttosto che anticiparli (anche se ciò non è necessariamente vero, ci sono molti esempi del contrario e uno lo vedremo). Ma anche la piccola o media azienda, pur essendo in teoria a più stretto contatto con la propria clientela e più agile, rischia di crogiolarsi in un atteggiamento miope e poco lungimirante.

Potrebbe ad esempio essere più vulnerabile a problemi finanziari e a una maggiore pressione per ottenere profitti a breve termine. A volte la tecnologia richiede grossi investimenti in fase di sviluppo, prima di arrivare a una massa critica di adoption da parte degli utenti che consenta poi di monetizzare in qualche modo. La PMI tradizionale non è attrezzata e piuttosto che cercare le risorse necessarie sui mercati finanziari di solito sceglie di concentrarsi sul business attuale.

Inoltre, le aziende medio-piccole mancano spesso di un’organizzazione manageriale diffusa ai vari livelli. Le decisioni vengono sempre prese dal proprietario/fondatore che spesso non ha il tempo di aggiornarsi o le competenze per approfondire tutto. Risultato: è molto probabile che detti legge il mantra “abbiamo sempre fatto così”. Tipicamente in queste organizzazioni potrebbe non esserci un tasso sufficientemente elevato di innovazione.

La riflessione sulla miopia di marketing fu completata da Levitt cinque anni dopo (1965) con un nuovo articolo sulla Harvard Business Review con cui introduceva per la prima volta il modello del ciclo di vita del prodotto, un altro strumento concettuale eterno e sempre attuale. La miopia di marketing può essere fatale in particolare nella terza-quarta fase del modello, quella in cui la maturità trascolora nel declino: cominciano ad apparire nuovi prodotti/servizi con migliori prestazioni che prima non c’erano (che rappresentano delle alternative per i clienti ed erodono quote al settore di appartenenza), le preferenze e le abitudini di consumo si modificano, emergono cambiamenti nell’ambiente in cui si trova il mercato.

E questo era Levitt, veniamo al secondo autore che citavo. A Michael Porter, in tempi più recenti (siamo agli inizi degli anni 80), si devono i maggiori contributi nel campo del marketing strategico e delle strategie competitive. Fu uno dei primi a porre l’accento su una cosa tanto importante come il vantaggio competitivo, vale a dire quel qualcosa che spiega la superiorità delle prestazioni di una azienda leader rispetto ai concorrenti.

Nel 79 scrive un articolo, anche lui sulla rivista Harvard Business Review, in cui prova a fornirne un modello descrittivo-operativo basato su 5 forze, mentre nel 1985 descrisse le strategie basate su di esso.

E distinse strategie competitive basate su un vantaggio di costo da quelle basate invece sulla differenziazione. Nel primo caso l’azienda consegue la leadership in un determinato settore grazie al prezzo più basso, nel secondo caso invece ottiene che il mercato sia disposto a pagare un premio di prezzo per il suo prodotto perché riconosciuto come differente dai concorrenti in virtù di un qualche attributo di valore che lo rende estremamente desiderabile.

Può trattarsi di un attributo tangibile e concreto, tale da determinare una performance oggettvamente superiore. Ma più spesso non è sul piano meramente funzionale, bensì su quello intangibile che si vince la partita. Ed entrano in gioco il marketing e la comunicazione, siamo nel dominio del branding: si pensi appunto al concetto di marca, ai significati ad essa associati e ai prodotti di status.

Oltre alla strategia basata sulla leadership di costo e sulla differenziazione, Porter ne identifica una terza: quella basata sulla specializzazione. Si ha quando una azienda si specializza su un particolare segmento di clientela (e solo su quello) e riesce a servirlo in modo efficiente a dispetto dei concorrenti, o comunque meglio di loro. E quando il segmento in questione è di dimensioni ristrette si parla di nicchia: ancora una volta l’azienda può basare il suo vantaggio competitivo facendo leva su prezzi più bassi (ma comunque tali da garantire profitto) o su una superiorità di prestazione/percezione.

E qui arriva il quesito, il cortocircuito di cui parlavo. Pensiamo a uno scenario in cui quello che una volta era un segmento diciamo bello grosso è con tutta evidenza, nel medio-lungo termine, destinato fisiologicamente a ridimensionarsi al punto tale da diventare – o tendere a diventare – una nicchia.

I cambiamenti del mercato o dei gusti della clientela erodono anno dopo anno le dimensioni del settore. I competitor diretti magari diminuiscono, molti falliscono, così che il fatturato e la quota di mercato relativa crescono, invece di diminuire. Tuttavia emergono alternative di acquisto e scelte di consumo che prima non esistevano, che drenano inevitabilmente consumatori a beneficio di settori differenti che rivolgono la loro offerta allo stesso mercato.

Ciò nondimeno, una nicchia può comunque essere profittevole. Una azienda potrebbe reagire dunque decidendo di non riesaminare o innovare (come suggeriva Levitt) la propria offerta di valore, ma di specializzarsi sempre di più su quella nicchia (più o meno nel modo descritto da Porter).

Il punto diventa il seguente. È vero, le nicchie possono essere profittevoli; ma sono anche stabili nel tempo? Si tratta di una miopia di visione o di una consapevole scelta strategica?

Il confine tra i due concetti è molto labile. Si possono fare grandi profitti anche in un settore tendenzialmente declinante, se si è già presenti e fortemente specializzati. Le dimensioni ristrette paradossalmente giocano a favore in questi casi, funzionando alla stregua di barriere naturali all’ingresso di nuovi competitor: mancano le prospettive di economie di scala che consentano di andare a break even e iniziare a registrare profitti, chi è già dentro continua a operare indisturbato.

Una azienda che si trovasse in un simile scenario dunque cosa dovrebbe fare? Mettere in discussione una strategia che funziona perché niente a questo mondo è eternamente immutabile (figuriamoci un mercato) o specializzarsi ulteriormente su un segmento di consumatori profittevole ancorché destinato a dimensioni sempre più ristrette? Chi avrebbe ragione, Levitt o Porter?

Indipendentemente da quella che credete sia la risposta, mi preme evidenziare che dalla teoria alla realtà il passo è breve e, come dicevo all’inizio, questi concetti del secolo scorso non hanno perso affatto la loro validità. Un esempio concreto? Meta alle prese con il metaverso, è di questi giorni la notizia che solo nel 2022 gli è costato la bellezza di 14 miliardi di dollari di perdite. Perché lo fa? Mi piace pensare che nella mente di Marketto possa essere risuonata forte la lezione e il monito di Theodore Levitt, ma ne parlerò nel prossimo articolo…

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