Stewart Copeland, l’Umbria e i Police riarrangiati per l’orchestra

Ho provato a imparare Message in a Bottle dei Police seguendo la notazione di batteria originale. Ci provo ormai da tre o quattro anni, per dirla tutta. E’ stato un bel grattacapo e non ci sono ancora riuscito.

Evidentemente non è questione di caparbietà, è semplicemente al di sopra delle mie capacità. Ecco 10+ cose che la rendono particolarmente ostica per il mio livello (ma anche particolarmente bella) e di cui mi sono reso conto studiandola.

Il timing innanzitutto. Ovviamente. Parliamo di almeno 150 bpm, una velocità di crociera che non lascia respiro. E poi il tiro, che è già una cosa meno ovvia. La parte di batteria non è solo veloce, è anche sempre avanti. Nervosa, scattante, trainante. Copeland è così.

E ancora, la fantasia e l’imprevedibilità: la batteria cambia in continuazione, la parte è piena di soprese e idee spiazzanti. Richiede dunque tecnica, resistenza, confidenza con il kit e concentrazione, tutte insieme e tutte ad un livello piuttosto avanzato.

Intro, il pezzo parte a cannone: cassa-rullante mentre il charlie scandisce gli ottavi, ma con quelle aperture che sbilanciano la postura e rischiano di fare danni al flow. I groove. Le 3 strofe sono una diversa dall’altra, e tutte abbastanza atipiche. Ovviamente. E’ Copeland, si sa che è estremamente originale e mai banale.

Nella prima strofa ad esempio non c’è la classica cassa sul primo quarto e mentalmente, a te neofita-dilettante-pippa della batteria, è come se mancasse un appoggio. In compenso poi te ne mette due, di colpi di cassa, sul levare del due e ovviamente sul tre (a volte c’è solo questa), due posizioni strategiche nella ritmica del brano e infatti torneranno anche più avanti.

Poi c’è quà e là quella che io chiamo “la sberla”: un accento crash + rullante spesso suonato sul 4, mica sull’uno: molto reggae, ok… basta farci l’abitudine! Andiamo avanti, ma siamo a meno di un minuto dall’inizio e ho già il mal di testa.

Pre-chorus, tutti caratterizzati dal ritmo martellante scandito dalla cassa che batte gli ottavi e trasmette tutta l’urgenza del suo suonare avanti. Alla fine del primo, filletto al fulmicotone… niente di particolare, ma a quella velocità diventa tosto.

Con estrema fatica, e decine di errori, arrivo finalmente al primo ritornello. Qui si va sulla campana del ride e gli unisoni con la cassa che sotto continua a martellare gli ottavi non sono banali, mentre la mano sinistra oltre la cassa suona pure i tom sul levare del due e sul tre (ancora loro).

Alla fine del primo turn, otto battute, fa quel fill sui levare che finisce dove? In mezzo alla battura successiva! Potete immaginare quanto ci ho messo a realizzare sta cosa, e quanto ho impiegato a capire come fare a restare nel tempo quando un fill non finisce sul primo quarto.

Dunque fai sto fill e ti ritrovi immediatamente nella seconda strofa. Qui non c’è rullante, della serie “less is more”: è tutta giocata sulla cassa che batte i quarti e i tom sempre su en-three (sempre loro). Anche qui, originale un groove senza rullante sul battere del due e del quattro. Ancora peggio se il rullante non c’è proprio: se sei abituato al pop-rock, manca un riferimento ritmico familiare, che consideri quasi naturale e che in qualche modo tendi sempre a cercare in un groove. Per la cronaca, i colpi di tom con la sinistra stavolta li devo fare scavalcando la mano destra che intanto incessante porta gli ottavi (più qualche abbellimento qua e là, sennò troppo facile) sul charleston: una cosa non proprio comodissima.

A complicare ulteriormente tutto, la seconda volta che fa il pre-chorus passa sul piatto ride alla fine della prima battuta del ritornello (e non all’inizio)… cosa?! Non ha nessun senso, nessuno lo fa! È quello che ho pensato anch’io, ma tant’è. Con Copeland non ci sono regole, devi stare sempre sul chi va là.

Gli incastri tra cross stick e cassa durante gli altri due turn vabbé, non ne parliamo. Di chiara derivazione reggae, in effetti la fama dei Police è storicamente legata proprio al fatto di averlo saputo mescolare in modo originale e innovativo con il punk rock. Alla fine del secondo turn (18 battute, non 8 come il precedente), il fill ovviamente cambia ancora anche se di poco e via con la terza strofa.

Qui non lo so esattamente che fa. Sembra che vada proprio a istinto, senza uno schema predefinito. So solo che “fa cose” sul charleston (che è un’altra sua cifra stilistica, l’estrema confidenza e fantasia sul charleston lo caratterizza come batterista, molto signature). In alcuni momenti sembra un groove disco.

Pre-chorus e chorus, poi ci sono otto battute con cassa in quattro e half time (rullante sul tre), che in sé non sarebbe difficile ma è l’ennesimo cambio di groove in meno di tre minuti. E arriva l’outro, la cavalcata finale, con “le sberle” che diventano due ravvicinate, ripetute qua e là sempre dove non te l’aspetti, ma io sono stanchissimo, in affanno e infatti ho già perso il groove da un bel pezzo…

Insomma per me è un inferno, non mi viene granché ma non mi arrendo. Anzi è lo spunto giusto per allenare e provare a migliorare una per volta tutte le varie cose presenti nei vari segmenti del brano. Anche se poi quando le vado a mettere insieme, complice la velocità, l’imprevedibilità delle idee e la difficoltà complessiva del pezzo, il risultato è sempre insoddisfacente.

Fatta (a modo mio) questa breve analisi della parte di batteria del brano, questa estate Stewart Copeland è impegnato in un tour in cui propone il repertorio dei Police in una chiave inedita.

Visto che Sting non vuole saperne di nuove reunion (l’ultima è del 2008 e non ce ne sono altre alle viste), lui ha riarrangiato per orchestra molti dei pezzi più noti e amati (in qualche caso per la verità li ha anche parecchio stravolti). Questo gli permette di suonare abbastanza agevolmente con orchestre ogni volta diverse residenti nelle città toccate dal tour, perché quelli la musica la sanno leggere dallo spartito e suonarla un attimo dopo (si fa per dire) per filo e per segno. Copeland ha raccontato a modo suo, simpaticamente, tutta la vicenda “Police Deranged” anche l’altra sera a Perugia (la trovate in questo discorso).

Dunque l’occasione era imperdibile. Siamo partiti con il mio amico Mauro (lui sì, batterista. E anche armonicista, di recente) di venerdì mattina, a pranzo una bella bistecca e un Brunello lungo l’autostrada per Perugia, poi aperitivo con un caro amico di vecchia data (il mitico Roby, quanti ricordi!), e la sera finalmente concerto della “belva” (Copeland appunto).

La mattina dopo, visita in zona Montefalco della tenuta Lunelli e a seguire monumentale degustazione alla tenuta Scacciadiavoli (sarò una pippa di batterista, ma anche un sommelier certificato… 8 vini in degustazione… il prossimo articolo lo faccio sul vino, è passato un bel pò dall’ultimo).

Una bella due giorni insomma, un road trip (da tempo non ne facevo uno) con uno dei miei migliori amici a base di grande musica e batteria e allo stesso tempo vino, vigne e cantine in una terra a cui sono legato anche da ricordi professionali (era la mia area di produzione).

Tornando a Stewart Copeland, e chiudendo, a questo Signore dirgli batterista è decisamente riduttivo. Non solo alla batteria è estremamente riconoscibile, fantasioso, imprevedibile, impossibile da riprodurre tale e quale (in effetti una volta ho letto una sua dichiarazione in cui diceva che, anche lui, i suoi pezzi non li suona a memoria ma a istinto, come gli vengono, quindi mai due volte nello stesso modo). Ma sa anche comporre e scrivere musica, e infatti dopo i Police si è ritagliato una carriera come compositore di colonne sonore di tutto rispetto.

Chapeau, valeva davvero la pena andare a vedere e sentire un musicista e un fenomeno della batteria, strumento che amo e con cui mi diletto (ancorché senza grandi pretese), a maggior ragione in questa inedita veste orchestrale. Lui poi sul palco è estroverso, istrionico, comunicativo. E… cazzo come suona!

Come fa a farlo a quelle velocità con la traditional grip, poi, per me resta un mistero anche dopo averlo visto suonare dal vivo. Comunque ecco Message in a Bottle, il mio incubo, riarrangiato e interpretato da Stewart Copeland, dalla sua band e dall’orchestra di Umbria Jazz.

PS: lasciatemi anche dire che preferisco di gran lunga la versione rock del brano, sia io che Mauro ci siamo trovati concordi nel dire che questa orchestrale ha meno spinta, oltre ad essere più lenta. E lui non esprime tutta la fantasia, l’energia e l’imprevedibilità che ha messo nelle parti di batteria sul disco. In fin dei conti è anche normale, considerato il diverso contesto. Tuttavia mi pare questo uno di quei casi in cui ti rendi conto che basso-batteria-e-chitarra (e un arrangiamento compatto) suonati bene possono essere di gran lunga più potenti e immediati di un’intera orchestra.

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