La viticoltura di qualità ai Castelli Romani: Castel de Paolis

Dopo aver raccontato di vino, vigne e cantine di prim’ordine, tutte in varie regioni italiane, morivo dalla voglia di scrivere qualcosa sul Lazio e, in particolare, sui Castelli Romani. Che è dove sono nato, cresciuto e tutt’oggi vivo. Si tratta di una zona collinare a sud-est di Roma, 14 comuni che sorgono a varie altitudini sui versanti dell’antico Vulcano Laziale.

Parliamo di un territorio alle porte della capitale che riguardo la produzione del vino ha buone tradizioni, ma di certo non blasone. La produzione, per lo più domestica e parcellizzata, è sempre stata all’insegna della quantità: poi vedremo anche perché. Tuttavia ci tenevo a raccontare una storia che dimostrasse che anche i Castelli hanno tutte le carte in regola per la viticoltura di qualità, che anche qui c’è chi coltiva le uve e le vinifica avendo in testa un obiettivo di qualità, con passione e competenza. E pensando a una tenuta che potesse testimoniarlo, mi è tornato in mente Castel de Paolis.

Tenuta che già conoscevo. Più precisamente, ci sono due precedenti. Intanto una decina di anni fa ero già passato, quella volta non avevo preso appuntamento; mi accolse un impiegato, comprai delle bottiglie ma non feci giri in vigna o cantina né degustazioni. Ma l’aneddoto più significativo è una cena dell’Associazione Italiana Sommelier, non ricordo quale fosse l’occasione ma poteva benissimo essere il 2011. C’erano il signor Giulio Santarelli e sua moglie, Adriana, che con disarmante spontaneità (e una punta di giustificata soddisfazione) a un certo punto confessò: “L’anno scorso eravamo alla serata dei 5 grappoli (il premio conferito ai vini giudicati eccellenti dai recensori della guida Duemilavini… ndr), al tavolo c’erano grandi nomi del vino italiano e poi noi. Ero un po’ imbarazzata, perché tra tutti, quell’anno, eravamo gli unici ad avere ottenuto due 5 grappoli…”. Umiltà, semplicità, simpatia, ai Castelli siamo gente alla mano.

Per giunta la tenuta è anche vicina a casa mia, sorge tra Marino e Grottaferrata, così ho scritto una email (citando anche l’episodio). Mi ha risposto Fabrizio, figlio di Giulio e Adriana, c’è lui ora alla guida di Castel de Paolis; abbiamo preso appuntamento per una visita e una chiacchierata. Stavolta niente cose estemporanee.

Cominciamo con un flashback, un salto indietro di circa 40 anni. “Mio padre era fortemente motivato a dimostrare che questo territorio aveva tutte le potenzialità per fare grande vino”. E la stessa cosa deve aver pensato il professor Attilio Scienza, Direttore Generale dell’Istituto Agrario di San Michele all’Adige in Provincia di Trento, quando Giulio Santarelli gli chiese cosa ne pensava. Il racconto di Fabrizio è appassionato e divertente. Scienza, uno dei massimi esperti del suo tempo in fatto di viticoltura ed enologia, gli rispose più o meno così: “Avete un suolo vulcanico, il mare con i suoi benefici influssi è lì a qualche chilometro, il terreno ha pendenze collinari… Che aspettiamo?!”

Siamo nel 1985, inizia così una storia di scienza e ricerca, di coraggio imprenditoriale, passione e voglia di riscatto. Un approccio scientifico e sperimentale alla viticoltura che ha richiesto ben otto anni, prima di iniziare a produrre davvero vino per il mercato.

Molto probabilmente, qui ai Castelli Romani, a Castel de Paolis sono stati i primi a fare ricerca e qualità, inaugurando una strada che solo in tempi recenti (a distanza di qualche decennio) anche altre cantine hanno poi percorso. Oggi non sono gli unici, per fortuna, ma quando hanno iniziato loro nessuno aveva quell’approccio alla vigna e al vino di famiglia.

Tutti infatti qui avevano la vigna, molti (inclusa la famiglia Santarelli) vendevano le uve, chi vinificava produceva per lo più bianchi dozzinali e discutibili che finivano sulle tavole delle osterie e dei romani. Un mercato così vicino, quantitativamente enorme e “di bocca buona” non rappresenta di certo uno stimolo allo studio, agli investimenti, alla qualità.

Ma Giulio Santarelli, giovanissimo sindaco di Marino e poi nel corso della sua fortunata carriera politica anche presidente della regione Lazio, onorevole e sottosegretario di stato al Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, fu invece all’epoca un antesignano, uno contro corrente, un visionario. E l’amicizia con Attilio Scienza è stata decisiva nell’innescare una storia di ricerca, passione e qualità che prosegue ancora oggi.

Furono impiantati 25 vitigni diversi in un campo sperimentale della tenuta, dopo 3 anni si fece microvinificazione e la metà venne scartata per via dei risultati non soddisfacenti. Furono tenuti i vitigni autoctoni bianchi prescritti come obbligatori dal disciplinare del Frascati, la DOC di zona a cui comunque non si voleva rinunciare. Tra gli internazionali, si scelse il viogner, che diverrà poi la base del donna Adriana (bianco di punta dell’azienda e vino pluripremiato), il semillion e il sauvignon blanc (vedremo poi per farci cosa), cabernet sauvignon, merlot, shiraz (“che all’epoca non era ancora così di moda” precisa Fabrizio) e petit verdot. Ultimi non ultimi, il cesanese (vitigno laziale, anche se non di zona) e il moscato rosa, un vitigno poco noto e anche poco diffuso nell’intera penisola.

Furono dunque espiantati tutti i vecchi vigneti di famiglia, risalenti agli anni ’50 e ’60. La superficie vitata, un totale di 15 ettari, fu reimpiantata in 5 anni. Che sommati ai 3 di sperimentazione fanno otto anni totali, durante i quali si posero le basi di tutto quello che poi è venuto dopo ma non si produceva ancora vino per il mercato.

Nel ’93 finalmente inizia la commercializzazione delle prime bottiglie ottenute con le uve delle nuove viti, piantate con una densità media d’impianto 3 volte superiore rispetto a quella in voga all’epoca nelle vigne circostanti. “Le radici vanno più in profondità, prendono meglio la mineralità del suolo di origine vulcanica – tratto peculiare del territorio dei Castelli Romani – e soffrono meno la siccità; all’epoca fu una innovazione e oggi, con il riscaldamento climatico, possiamo dire che fu una scelta molto lungimirante”.

In quell’anno fu costruita anche la prima cantina (come detto, i Santarelli vendevano le loro uve senza vinificarle), poi sostituita da una nuova e moderna realizzata nel 2005, che è quella dove ci troviamo ora.

In vigna Castel de Paolis è stato tra i primi in zona a praticare il diradamento per abbassare la resa per ettaro, in particolare per i rossi, e dunque a sacrificare la quantità per la qualità. La raccolta delle uve è a mano, viene usato ghiaccio secco per arrestare fermentazioni indesiderate (altra innovazione per l’epoca e per il territorio), al massimo in tre ore l’uva va in pressa. “Dunque come se fosse appena colta, questo soprattutto per i bianchi significa fragranza e più qualità”. Per la fermentazione si usano tini in acciaio dotati di un impianto di termoregolazione. “Per le uve bianche la facciamo a 15 gradi invece di 30, così facendo allunghi i tempi ed estrai di più gli aromi dalla polpa degli acini”.

Mentre dalla barriccaia passiamo all’adiacente ipogeo (“un tempo ci invecchiavamo i vini, oggi la usiamo come location di eventi; probabilmente era una antica cisterna romana”), Fabrizio – con giustificato orgoglio – ci racconta i suoi vini. Che, al netto delle innovazioni e degli aggiornamenti nelle tecniche di vinificazione, sono sempre gli stessi e godono di una fama ormai consolidata anche in virtù di questa continuità.

Ce ne sono quattro che sono i miei preferiti, per varie ragioni.

Campo Vecchio, IGT Bianco del Lazio, è un blend di uve locali con un 20% di viognier. Poi c’è il Frascati Superiore DOCG, con le tradizionali uve del territorio prescritte dal disciplinare, e il Donna Adriana. Quest’ultimo sicuramente deve la sua struttura e la sua più che meritata fama a quell’80% di viognier (il 20% di questo ottanta fa anche barrique, insomma è un vino stilisticamente ricercato e perfezionato di annata in annata). Come ogni anno la rivista Gentlemen di Milano Finanza si è divertita a comporre una specie di superclassifica Top 50 vini bianchi con le medie dei punteggi attribuiti dalle 6 più autorevoli guide italiane in fatto di degustazione: il Donna Adriana si è piazzato secondo assoluto, un risultato che giustamente inorgoglisce Fabrizio.

Tra i rossi, oltre al Cabernet Sauvignon in purezza (“Fa solo acciaio, è un vino fatto per assecondare la domanda di mercato”), c’è il Campo Vecchio (shiraz 18 mesi barrique usate + cesanese), e I Quattro Mori, l’altro vino di punta dell’azienda, un assemblaggio ottenuto da 4 uve internazionali (shiraz, cabernet sauvignon, merlot e petit verdot) che prevede uso di barrique, anche questo pluripremiato.

Chi mi conosce sa che non amo particolarmente i blend, e che agli internazionali preferisco gli autoctoni… ma questi due campioni fanno eccezione, sono davvero due vini di grande classe e infatti di anno in anno continuano a collezionare premi anche al di fuori dei confini nazionali.

Gli altri due sono le chicche della tenuta, due autentiche rarità.

Muffa Nobile, vino bianco da dessert ottenuto da uve semillion e sauvignon blanc (le stesse del sauternes) attaccate dalla botrytis cinerea. L’ultima annata prodotta è il 2019, appena quattro barrique: “Si tratta di pochi filari e non sempre si riesce. A volte la muffa nobile, che è un fenomeno naturale e spontaneo, non incontra le condizioni favorevoli per ricrearsi. Il clima caldo e particolarmente secco degli ultimi anni certo non aiuta”.

E Rosathea, rosso da dessert, anch’esso dolce ma non stucchevole, ottenuto da uve 100% Moscato Rosa. Si tratta di una varietà molto rara e poco coltivata: al di fuori del Veneto, che è la sua terra d’elezione, sembrerebbe che l’unico a coltivarla e vinificarla in tutta Italia sia proprio Castel de Paolis qui ai Castelli Romani.

Se il primo nasce per espresso volere e desiderio di Giulio Santarelli, innamorato del sauternes e convinto di voler fare un vino con quelle stesse uve e quelle stesse caratteristiche anche nella sua tenuta (“praticamente una fissa di mio padre”), il secondo è invece dovuto ad un lungimirante e fortunato consiglio del professor Attilio Scienza, che conosceva la varietà e le sue potenzialità sin dai tempi di San Michele all’Adige.

Un lato molto interessante della faccenda è l’aspetto imprenditoriale, il vino come business. Una parte che di solito non viene fuori, quando visiti una cantina. Fabrizio, laurea in economia e una carriera manageriale avviata in altri settori, a un certo punto della sua vita decide di prendere le redini dell’azienda di famiglia e strategicamente individua sin da subito alcuni target per il suo vino oltre i confini nazionali, molto lontano.

Il primo mercato estero per Castel de Paolis è la Cina, seguita da Inghilterra, Germania e Svizzera; i vini della tenuta castellana sono presenti anche in otto stati degli USA. La Cina è stata ed è ancora oggi un pò la sua scommessa: “Siamo distribuiti in Cina dal 2013. Ci vado spesso e ci tornerò in autunno insieme al nostro esportatore per fare promozione”.

In Cina il consumo di vino è voluttuario, non lo bevono al pasto. Il consumo pro-capite è di un litro di vino l’anno (“se passasse anche solo a due, ci sarebbe un boom”). E’ un mercato in forte espansione, dove però l’Italia è ancora poco percepita (“I francesi invece, anche in questo caso, hanno saputo fare sistema muovendosi prima e meglio”).

Il potenziale insomma è enorme, ed è in virtù di esso che Fabrizio ci racconta che sta lavorando all’espansione del vigneto: l’obiettivo è prendere in gestione nuovi appezzamenti nei pressi della tenuta. I vini di punta continueranno ad essere prodotti dalle vecchie vigne, ma per servire un mercato come quello cinese con i vini di accesso alla gamma servono nuovi filari (e nuovi investimenti). Anche in tal caso, la qualità non ammette compromessi: potresti comprarla, gli dico. “Faccio vino solo con uva coltivata da noi, non posso portare in cantina materia prima che non conosco”.

Infine un accenno al connubio tra vino, arte e territorio rappresentato dalle etichette che vestono le bottiglie della tenuta. Giulio Santarelli e Attilio Scienza convinsero l’artista Umberto Mastroianni, zio del noto attore Marcello e residente in quegli anni a Marino, a disegnare quella del Donna Adriana. Un modo ulteriore per comunicare l’unicità e l’ambizione del progetto enologico Castel de Paolis. Da allora “il bacco gioioso che gioca con l’uva”, che di recente ha subito un aggiornamento grafico, è stato declinato su tutti i vini prodotti ed è divenuto il brand dell’azienda tout court.

E’ passata un’oretta, la nostra chiacchierata volge al termine. Facciamo ancora qualche bella foto dalla terrazza panoramica che dà sui vigneti e affaccia su Roma. Nei giorni di cielo terso si vede distintamente la cupola di San Pietro.

La città è lì davanti, per lo più ignara della storia e della qualità di un territorio così bello come quello dei Castelli Romani e delle sue potenzialità in ambito vitivinicolo. Ok sono di parte, ma un po’ di sano orgoglio è più che giustificato. E la storia di Castel de Paolis lo dimostra.

Salutiamo Fabrizio, lo ringraziamo per il tempo che ci ha dedicato e per averci, con grande cordialità ed ospitalità, mostrato i luoghi e raccontato la storia della sua tenuta.

Lascia un commento