E così, contro ogni avversità, il treno rock ‘n roll degli AC/DC è tornato trionfalmente on the road, a correre “right off the track” come recita una delle tante hit della loro lunghissima carriera. I musicisti sul palco in parte sono cambiati, in un precedente articolo avevo del resto già ripercorso le ultime vicissitudini di questa band inarrestabile, ma il copione resta sempre lo stesso.
E si badi bene, questo è uno dei punti di forza degli AC/DC: la formula non è mai cambiata, fanno sempre le stesse cose sia a livello musicale che di intrattenimento live, praticamente da quando sono nati 50 anni fa (!). Sono semplici e diretti, sfrontati e prevedibili allo stesso tempo, esageratamente rumorosi ma molto divertenti: niente fronzoli musicali o velleità artistico-concettuali, solo pura energia ed elettricità rock. E infatti, a differenza di altri che pure ho scritto in passato e trovate nel blog, in questo articolo su musica e batteria c’è tanta “pancia” e poca “testa”.
Della formazione originale, quella diciamo fino a Highway to Hell (1979), resta l’immenso Angus Young: l’anima musicale della band, il padrone assoluto della scena e il vero frontman nonostante invece di cantare suoni la chitarra. Della formazione classica, quella diciamo da Back in Black (1980) in poi, si segnala la ripresa dell’attività live del cantante Brian Johnson dopo il momentaneo allontanamento patito nel 2016 con il tour Rock or Bust ancora in pieno svolgimento, capace stavolta di sfoderare una prestazione vocale convincente e graffiante nonostante i 76 anni suonati (è proprio il caso di dirlo).
Per il resto Stevie Young alla chitarra ritmica aveva già preso il posto dello zio Malcolm Young (tra l’altro sul palco ne è praticamente il clone esatto) dal 2015. Confermato alla batteria Matt Laug, dopo l’esordio positivissimo del Power Trip: anche lui somiglia tantissimo al batterista titolare, quel Phil Rudd che ha suonato nell’ultimo disco Power Up (2020) ma che evidentemente per qualche ragione (pare sia stato incriminato per aver assoldato un killer che doveva uccidere due persone) non può andare in tour con il resto dei compagni. Completa la line up un ragazzo molto più giovane al basso, tale Chris Chaney, con una presenza scenica certamente inferiore a quella del buon vecchio Cliff Williams (ritiratosi dall’attività live), che quando dal fondo del palco avanzava fino al microfono per sostenere i cori insieme a Malcolm assumeva una postura perentoria.
Il tanto atteso tour del ritorno è iniziato con due date indoor in Germania, e poi sono venuti subito in Italia, alla RCF Arena di Reggio Emilia (meglio nota come Campovolo). Una struttura che non conoscevo e che mi ha sorpreso per la logistica perfetta: parcheggi adeguati, percorsi agevoli e differenziati per raggiungere i vari settori, ognuno dei quali ha i suoi servizi (bar, bagni, acqua potabile), terreno in leggera pendenza: credo sia uno spazio per concerti unico nel suo genere in Italia perché progettato appositamente per eventi di musica dal vivo di queste dimensioni (oltre cento mila spettatori paganti).

Stavolta, a differenza del loro concerto a Imola del 2015, io ero davvero molto vicino al palco. Con Nicolò avevamo accarezzato il sogno di vederli così da vicino sin dal giorno in cui si è saputo che sarebbero tornati nel nostro Paese. Nonostante il costo importante, abbiamo preso i biglietti per la Red Zone (il settore davanti). Coerentemente, con grande decisione e determinazione, sabato 25 maggio abbiamo pianificato di partire davvero molto presto da Roma. Alle dieci eravamo in agriturismo a Reggio Emilia per il check in, poco dopo le dodici, all’apertura dei cancelli, percorrevamo il percorso che porta dentro l’arena per prendere posto a pochi metri dalla pedana circolare su cui – più di nove ore dopo – sapevamo che Angus si sarebbe esibito al culmine dell’interminabile, esagerato, smisurato assolo di chitarra di Let There Be Rock.
L’attesa indubbiamente è stata lunghetta, in diversi momenti sembrava dovesse piovere e invece a tratti ha fatto anche molto caldo. Non sono mancati un paio di svenimenti proprio vicino a dove eravamo, mentre purtroppo nessuna tra le fan presenti (almeno dalle nostre parti) si è esibita nel canonico lancio del reggiseno (altro momento topico nei grandi concerti dell’epoca d’oro del rock).

Con noi c’era Edoardo, amico di Nic, e a metà pomeriggio è riuscito a raggiungerci il mio amico Francesco (che è l’autore degli scatti che seguiranno, a me non piace farne durante un concerto).

E’ stata anche l’occasione per salutare la mia carissima amica Zelda, sempre super rock, anche lei in zona rossa ma nelle retrovie per avere più libertà di andare e venire dalla zona bar/bagni (i due luoghi, come ben sanno i frequentatori di concerti, sono strettamente collegati per via della birra…).

Verso le sei si era già tutti in piedi e non c’era più spazio libero in cui inserirsi, a meno di non rischiare il linciaggio di chi (come noi) era lì già da diverse ore ed era deciso a presidiare il posto faticosamente conquistato. Verso le sette e mezza ha iniziato la band di supporto: a quel punto in questi casi l’entusiasmo per l’inizio del concerto, che comincia ad avvicinarsi, tipicamente prende il sopravvento sulla stanchezza e l’inedia dell’attesa.
Come dicevo, il copione dello show ricalca esattamente quello a cui gli AC/DC hanno abituato il loro pubblico e che il pubblico si aspetta da loro. L’inizio imminente è preannunciato da un filmato di animazione, come pure accadeva negli ultimi due tour. Batteria, basso e chitarra ritmica sono dove sono sempre stati, in fondo al palco. Apre la set list If you want blood, you’ve got it, in un certo senso il titolo non potrebbe essere più appropriato.

L’iconografia della band viene usata in modo spettacolare sui mega schermi, canzone dopo canzone. La campana di ferro con i suoi sinistri rintocchi che danno il là a Hell’s Bells; le fiamme dell’inferno per Highway to Hell, la figura gigante e grottesca della ormai leggendaria Rosie, stavolta in digitale; Angus che percorre in lungo e in largo il palco, si butta a terra e suona sdraiato, cade battendo il ginocchio e si rialza, sale e scende le scale, e mentre fa tutto questo ingaggia a oltranza il pubblico spremendo torrenti di note della sua chitarra Diavoletto; le cannonate di For those about to rock (We salute you) e i fuochi d’artificio finali. I momenti topici del concerto, persino gli ammiccamenti di Brian e soprattutto le gag di Angus, sono sempre le stesse.
Non farò la cronistoria dei pezzi, dirò piuttosto alcune cose. La prima è che è stato un concerto super divertente. E’ stato molto bello constatare come la live performance di questi “nonnetti” rock fosse ancora del tutto all’altezza del tonitruante passato e della loro incredibile fama mondiale. I pezzi sono esplosivi, coinvolgenti, in un attimo ti ritrovi a saltare con le braccia in aria, felice insieme a migliaia di altre persone. Non ricordo un altro concerto capace di coinvolgermi e scatenarmi in quel modo. Dopo sei o sette pezzi già non avevo più voce.

La seconda cosa, da appassionato di batteria consentitemelo, riguarda la prestazione di Matt Laug, uno che ha davvero tanto mestiere nelle mani. Sapete quanto mi piace la batteria degli AC/DC, il biondo batterista che in passato ha suonato in tanti live di Vasco Rossi si è fatto carico egregiamente del solido treno ritmico che in alcuni pezzi, oltre a dover essere estremamente regolare va pure bello spedito. Di lui, vedendolo dal vivo, mi hanno impressionato due cose. Intanto nella mano sinistra, quella con cui suona il rullante, non aveva una bacchetta ma una mazza da baseball. Sul serio, sullo schermo gigante alle spalle del palco che ogni tanto lo inquadrava si vedeva bene, una bacchetta con un diametro enorme. E infatti una pacca…

Poi mi ha impressionato il downstroke, per dirla nel linguaggio batteristico, la velocità e la potenza che ad ogni colpo scaricava sulla pelle. Sembrava che volesse conficcare il rullante giù dentro le assi della pedana. Anche sul charleston o quando andava sui crash, certe frustate col polso… insomma essenziale ed efficace, stilisticamente perfetto per il genere musicale e per il contesto, ovvero un concerto di hard rock con una immensa arena open air da centomila persone stracolma. Mi sarebbe piaciuto vedere Phil Rudd dal vivo (nel 2015 a Imola c’era Chris Slade), ma diciamo che Matt Laug ha interpretato alla perfezione il ruolo di metronomo che il copione gli ha assegnato e fatto fino in fondo il suo dovere di fabbro.
Abbiamo inoltre constatato con grande piacere che Brian Johnson è in buona forma. Non mi riferisco alla pancia da attempato e impenitente rocker ultrasettantenne, che c’è (e ci sta tutta), seppur celata da una polo oversize. Ma alla voce. Nel 2015 ricordavo qualche incertezza sui pezzi più incalzanti, a questo punto ipotizzo che forse erano causati dai ben noti problemi di udito che l’anno dopo lo costrinsero a lasciare il tour (poi risolti grazie all’intervento di uno scienziato grande fan della band che non volle rassegnarsi al ritiro dalle scene del suo cantante preferito e gli creò degli auricolari speciali). Perché invece, a Reggio Emilia, Brian le ha cantate tutte. Con la sua voce assurda e graffiante, con quell’espressione che adoro caratterizzata dagli occhi fuori dalle orbite per il parossismo dell’esecuzione, offrendo complessivamente una performance molto buona.

E poi ultima cosa, la più importante. Lasciatemi dire che ne è valsa la pena, non ti importa niente dei soldi spesi o della stanchezza quando poi vedi Angus Young così da vicino. Angus ha un modo tutto suo di suonare e stare sul palco. Ha questa espressione indiavolata, i capelli intrisi di sudore, il corpo letteralmente posseduto dal demone del rock e pervaso da un fremito continuo mentre inarrestabile fa headbanging, saltella, cammina, corre, affetta il palco con la celebre duck walk, e naturalmente suona riff e assoli che smuoverebbero anche le montagne.
Angus è identico a come ricordo di averlo visto (ma da lontano) a Imola nove anni fa, e a come lo vedi in uno qualsiasi dei migliaia di video che trovi su Youtube. Come nel leggendario Live at Donington del ’91, o nel monumentale Live at River Plate del 2009, solo che ora ha la capigliatura completamente bianca. Veste ancora l’iconica divisa da scolaretto, ma dopo tre brani ha già perso giacca, cappello e cravatta. Certo si limita a indossare la camicia completamente sbottonata, invece una volta rimaneva proprio a torso nudo: ma ragazzi, questo signore è alle soglie dei 70 anni!

E’ un’emozione fortissima, quando punta sguardo e chitarra dalle tue parti e avanza nella tua direzione con quella caratteristica andatura: la sua trance è contagiosa, devi saltare e urlare per dare sfogo all’adrenalina. A me diverse volte è venuto spontaneo di esultare come neanche alla finale di calcio dei Mondiali del 2006, chissà poi perché!
Detto di Angus, l’unico lato negativo del concerto è stato un volume a tratti assordante che usciva dalle sorgenti sonore che incorniciavano il palco, con le chitarre inauditamente alte. Probabilmente perché da lì il suono doveva raggiungere tutti i remoti angoli di una arena enorme e fantastica (c’erano anche dei pali periferici in vari punti, ma magari non bastavano). Però ecco, sotto il palco il mix era compromesso, a volte il frastuono distorceva perfino i riff di chitarra fino a renderli quasi irriconoscibili. Un esempio su tutti, Riff Raff, che invece era un pezzo che attendevo con ansia di sentire dal vivo perché l’ho scoperto solo di recente tra le gemme del loro sterminato repertorio e lo trovo incredibilmente travolgente e adrenalinico.
Fantastica Whole lotta Rosie, e fantastico l’inno alla dissolutezza dello stile di vita rock Highway to hell: un bordellone in mezzo al quale è stato entusiasmante scatenarsi e perdere il controllo, in una sorta di rito atteso e condiviso da tutti quelli che erano li. È stata una festa, una celebrazione, è bello che gli eventi di musica dal vivo muovano ancora simili passioni e folle smisurate; nell’era del digitale, dei mondi virtuali e dei metaversi non c’è esperienza surrogata paragonabile all’energia e all’intensità di un fottuto concerto rock come questo!
Quell’oceano di fan era una vera community, persone che non si conoscono e non si frequentano ma sono mosse dalla stessa passione, felici di vivere quei significati, gesti, immagini e suoni, di omaggiare i loro beniamini, lasciarsi travolgere dalla musica e divertirsi insieme a loro. E considerata la veneranda età dei membri storici della band, viene ovvio chiedersi se in Italia tutto ciò potrà accadere ancora.
E’ vero che gli AC/DC sono quelli dell’eterno ritorno del sempre uguale (come li ho definiti in un precedente articolo), ma davvero questo potrebbe essere stato l’ultimo concerto di Angus e Brian nel nostro Paese. Se così dovesse essere, beh… Io a Reggio Emilia c’ero, ero praticamente in prima fila, e me lo sono goduto dall’inizio alla fine!

2 pensieri riguardo “AC/DC live (a Reggio Emilia), pura energia ed elettricità rock”