Dalle cantine di Barolo alle vigne di Furore.

Il 2015 fu un anno di intensa attività, per il sottoscritto, riguardo al vino; quelli che mi frequentavano non riuscivano a sottrarsi all’entusiasmo con cui parlavo di questo hobby, che mi portava frequentemente a partecipare ad eventi, degustazioni e visite in vigna e cantina.

Anche il mio amico Simone, credo per la disperazione, alla fine aveva “casualmente” scoperto un interesse verso questa materia e completato il corso per diventare sommelier. L’apice lo raggiungemmo certamente l’anno seguente, quando tornammo al Vinitaly (dove per la verità ero già stato anche anni prima, poteva forse essere il 2011) e pochi mesi dopo partecipammo al Bibenda Day. Ma anche il 2015 fu impegnativo: oltre alla fiera di Verona in sua compagnia, in primavera mi concessi delle splendide visite presso due realtà di riferimento del panorama enologico italiano, dei cui vini ero (e sono) un grande fan. In queste due occasioni ad accompagnarmi c’era Valentina, la mia compagna, che credo assecondasse tutto sommato con piacere questa mia passione (o almeno me lo lasciava credere). I territori in questione sono le Langhe e la Costiera Amalfitana, tradotto in vini: Il Barolo e il Fiorduva.

Cominciamo dal primo. Il Barolo è stato l’argomento del colloquio d’esame per diventare sommelier, nel lontano 2011. “Parliamo della DOCG Barolo” mi chiese Massimo Billetto. Non è esattamente una domanda impossibile, considerato che questo vino è un monumento dell’enologia italiana; ma voleva sapere almeno 4 comuni della Denominazione, e onestamente credo di essermi fermato a 3. A parte questo, ovviamente ero preparato e feci una buona figura. In realtà però non è questa la ragione per cui sono poi andato a visitare le cantine del Barolo. C’entra più il fatto che ho la fortuna di avere ottimi amici in Piemonte, Zelda e Paolo, e quindi l’idea era quella di visitare in loro compagnia posti così belli, oltre che rivederli e passare un po’ di tempo insieme (le occasioni non sono molte, purtroppo).

Le Langhe sono uno splendido territorio collinare nel cuneese: qui ogni clivo sembra pettinato per effetto della presenza di questi vigneti, disposti secondo una perfezione geometrica molto scenografica. Il vino Barolo, tra i più prestigiosi e aristocratici rossi italiani, è ottenuto esclusivamente da alcuni cloni dell’uva Nebbiolo, un vitigno estremamente legato a queste terre e molto sensibile alle variazioni del micro-territorio da cui trae alimento. Al punto di avere vini Barolo con caratteristiche anche molto diverse a seconda delle singole vigne, che infatti vengono puntualmente menzionate in etichetta.

Al netto di ciò, volendo comunque generalizzare, possiamo dire che il Barolo ha: un caratteristico colore rosso granato trasparente e riflessi aranciati; grande intensità e complessità olfattiva, con aromi floreali (rosa e viola sono i più tipici e ricorrenti), fruttati, speziati, sentori di sottobosco e funghi, note di tabacco, pellame, cuoio, goudron (se non sapete cosa sia andatelo a guardare) e vattelappesca cos’altro; in bocca è caldo, tannico, robusto e austero, con una lunga persistenza gusto-olfattiva. Per inciso, i comuni in cui si può produrre questo grande vino sono per l’appunto Barolo, Castiglione Falletto, Serralunga d’Alba e … niente, più di 3 a memoria proprio non me ne vengono! Ad ogni modo qui, in compagnia dei nostri amici, abbiamo visitato le storiche cantine del castello dei Marchesi di Barolo e fatto una bella degustazione di alcuni vini di questa azienda.

Si tratta di una azienda vitivinicola a conduzione familiare, peraltro la più grande delle Langhe (che è risaputo essere un territorio di piccoli viticoltori), ma con una storia non indifferente. Che inizia persino prima della nascita del Regno d’Italia. Per capirci, Juliette Colbert di Maulevrier, moglie di Tancredi Falletti e marchesa di Barolo, è colei che diede fama e blasone al Barolo: un personaggio femminile molto emancipato e influente, che fu capace di promuoverlo inviando alla corte sabauda del re Carlo Alberto 325 botti, una per ogni giorno dell’anno salvo il periodo di quarantena (amava il vino, ma era nata in Vandea ed era molto devota). Da allora questo vino così possente, longevo, austero, ampio e straordinariamente persistente è passato alla storia come “il re dei vini, il vino dei re”. E il vino dei Marchesi di Barolo viene spesso identificato con il Barolo tout court.

La visita alle cantine del castello ha il suo culmine proprio al cospetto delle botti centenarie appartenute alla marchesa, restaurate e conservate con la devozione che si deve a cimeli risorgimentali. A questo punto potreste pensare a un déja vu: botti ottocentesche in cui è nato un vino-mito… ma non era Biondi Santi?! In effetti pur essendo due storie familiari molto diverse, sono entrambi luoghi di storia. E di botti che hanno fatto la storia di questi due campioni dell’enologia italiana, noti e rispettati ovunque nel mondo. La cantina è da decenni di proprietà della famiglia Abbona, che riesce a coniugare qualità e mercato, con più di 30 etichette prodotte ogni anno alcune delle quali votate ad una interpretazione del Barolo più contemporanea e meno fedele alla tradizione.

In effetti la querelle tra sostenitori della tradizione e innovatori è tutt’oggi molto accesa. A causa delle sue caratteristiche il Barolo è sempre stato un vino che, per essere apprezzato, richiedeva diversi anni di botte e bottiglia per arrotondarne l’indole spontaneamente ruvida e scontrosa. Negli ultimi decenni le tecniche di vinificazione e la pratica viticola lo hanno reso decisamente più morbido e immediato: fin qui nulla di male, le aziende produttrici hanno tratto giovamento da un orizzonte di disinvestimento meno lontano che in passato. Ma l’impiego delle barrique no: quello ha portato a interpretazioni molto distanti dall’identità più vera del Barolo, quasi eretiche e causa di accesissime discussioni sia tra gli addetti ai lavori che tra i semplici appassionati.

Comunque il perché ho scelto di visitare questa cantina, ci tengo a precisarlo, non risiede in una mia presunta passione feticista per le botti con più di cento anni d’età (prima quelle di Ferruccio Biondi Santi, poi quelle di Giulia di Barolo…). In realtà avevo conosciuto un collaboratore del dottor Abbona in occasione del mio secondo Vinitaly, quello stesso anno: quando visitai lo stand dei Marchesi di Barolo, come prevede il copione della manifestazione, ci fece assaggiare i vini che presentavano. Io per darmi un tono feci alcune domande e dissi pure che sarei andato a trovarli in azienda. In genere ai produttori fa piacere quando ti vedono interessato a chi sono e a quello che fanno (e non solo a scolarti avidamente tutto quello che ti mettono nel bicchiere). Infatti ci disse di aspettare, andò nella zona riservata agli ospiti accreditati e tornò con una bottiglia di Barolo dell’89. Una roba che di certo non ti capita normalmente di assaggiare, al banco di una fiera. Gliene fui grato, così a quel punto mi sono sentito anche quasi in obbligo di tener fede a quanto avevo un po’ sboronamente (passatemi il termine) sostenuto poco prima. Quando poi andai, nell’aprile 2015, in effetti fu proprio quella stessa persona (di cui purtroppo oggi non ricordo il nome) a guidarci nella visita: ovviamente non ricordava quell’episodio, ma mi fece comunque piacere ritrovarlo. E nella mia cantinetta sopravvive ancora una bottiglia di Barolo regalatami in quell’occasione da Valentina.

Furore invece, per chi non lo sapesse, è uno splendido comune della Costiera Amalfitana. Ci andai pochi mesi dopo, credo fosse giugno, semplicemente perché il Fiorduva di Marisa Cuomo è il mio vino bianco preferito. Mi sembra del resto una ragione più che valida. Quei luoghi sono così belli da meritare comunque una visita. Vietri, Cetara, Maiori, Minori, Amalfi, Positano; e arroccato in posizione panoramica lo splendore di Ravello. Furore è un piccolo paese certamente meno rinomato, anche perché ha una conformazione atipica: c’è questo fiordo unico nel suo genere, per il resto le case le incontri senza che ci sia un vero e proprio centro abitato lungo delle ripide salite che risalgono i costoni rocciosi della costiera; per arrivare alla cantina devi percorrere in auto una strada piena di tornanti, lasciando la statale Positano-Amalfi parecchi chilometri prima del fiordo. Scoprire la meravigliosa costiera per me significava ovviamente avere anche l’opportunità di scoprirne le eccellenze vitivinicole, oltre che paesaggistiche. Come ho già detto, ero in ottima compagnia e il tutto ovviamente assumeva contorni più intimi e romantici. Furono tre giorni bellissimi.

Della cantina Marisa Cuomo trovo straordinarie due cose, oltre ai loro vini. Il primo è il concetto di viticoltura eroica: come testimoniano le foto, le loro vigne si trovano in media oltre i cinquecento metri sul livello del mare, e si arrampicano su ripidi pendii a picco sull’azzurro del mar Tirreno. Sono delle condizioni estreme, per coltivare la vite: niente trattore o macchine agricole che possano ottimizzare le fasi di lavorazione, e al momento della vendemmia devi fare su e giù per queste balze con il bigoncio carico di grappoli sulle spalle. Insomma, tanta passione, fatica e sudore. Il che rappresenta una nota di merito e di fascino in sé, ma anche un vero e proprio valore aggiunto; e qui vengo alla seconda cosa assolutamente fuori dal comune: le viti.

In un simile ambiente pedoclimatico la fillossera, responsabile della distruzione di oltre il 95% del vigneto europeo nella seconda metà del 1800, non è mai arrivata. Le piante sono tutte a piede franco, con una età media di 80 anni (ma alcune superano anche i cento); per darvi un termine di paragone, le viti innestate post-fillossera su piede americano hanno un ciclo produttivo che difficilmente supera i 30 anni. Le varietà sono autoctone, ovvero tipiche della zona (non le trovi in nessun’altra regione d’Italia o del mondo) e sconosciute ai più: Ripoli, Ginestra e Fenile solo per citarne alcune. Queste piante sono esseri viventi bellissimi, ed è commovente osservare da vicino la caparbietà con cui spuntano direttamente dai muretti a secco del terrazzamento e si adagiano sulle pergole di legno a cui sono avvinghiate. Per non parlare del panorama mozzafiato: ma dove la trovate una vigna così!

Le foto che vedete sono proprio quelle di due dei vigneti da cui provengono le uve del Fiorduva, situate a breve distanza dai locali dove avviene la vinificazione e dalla annessa bottaia scavata nella roccia dove i vini vengono poi lasciati ad affinare. Andrea Ferraioli e sua moglie Marisa hanno iniziato nell’ormai lontano 1980. Oggi il Fiorduva, l’etichetta di punta dell’azienda, è uno dei bianchi più rinomati e pregiati d’Italia (e non solo). Non ricordo di preciso l’occasione in cui assaggiai per la prima volta questo vino, probabilmente durante una delle lezioni del corso per diventare sommelier. So solo che ne sono rimasto folgorato, e lo sono tutt’ora.

Per provare a descriverlo, faccio ricorso agli appunti di degustazione del Bibenda Day 2016 (che ho ritrovato tra le vecchie cose): giallo dorato molto luminoso, consistente; emozionante bagaglio olfattivo mediterraneo fatto di solarità e preziose increspature minerali, con note di frutta gialla, fiori bianchi, fieno appena tagliato, arancia candita, capperi e salamoia; in bocca ha un attacco avvolgente e glicerico, con infiniti ritorni gusto-olfattivi fruttati e minerali; grande freschezza e pulizia finale. Avevo fatto bene i compiti a casa, e si vede …

Ricordo che in occasione della nostra visita in cantina, nel giugno del 2015, ne comprai due bottiglie pagandole sui 30 euro l’una (forse anche qualcosa in meno). Ora in commercio supera i 50 euro, maledetto marketing… devo ammettere tuttavia che li vale tutti, per quanto è buono e per tutte le cose che vi ho qui brevemente raccontato. Se non lo avete mai assaggiato, davvero vi state perdendo qualcosa.

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