Sapevo che prima o poi non avrei saputo resistere alla tentazione e che avrei finito per scriverlo, questo articolo. Sapevo benissimo naturalmente che nel 2023 ci sarebbero state le celebrazioni per i 50 anni dall’uscita di The Dark Side Of The Moon. Tuttavia mi dicevo: “Che senso ha, scrivere qualcosa su qualcosa a proposito del quale si sa già tutto e tutto è già stato scritto? Impossibile offrire un punto di vista originale, meglio evitare”.
Anche perché in giro si trovano in proposito un sacco di libri e articoli molto validi, anche di gente che seguo e che scrive molto bene. Il rischio sarebbe stato nella migliore delle ipotesi un bel copia e incolla di cose scritte da altri, nella peggiore la noia nel farlo. Poi stiamo parlando di uno dei dischi più venduti della storia, cosa vuoi dire che non sia stato già detto.
Ma sapevo anche che sarebbe stato difficilissimo tenere fede a questo proposito, e infatti l’idea di scriverci su mi era già balenata quando si è saputo che per l’occasione sarebbe stato pubblicato un libro fotografico. Poi è arrivata la notizia del nuovo cofanetto per collezionisti in uscita a marzo, ed è stato un trigger che ha travolto qualsiasi resistenza.
Mi preme tuttavia precisare che c’entra anche il marketing. Del resto il fatto di ibridare, attraverso quello che scrivo, le categorie del mio blog, è volutamente una costante dei miei post. Intanto non è superfluo dire che un cofanetto per collezionisti è puro marketing, non necessariamente nel senso migliore del termine (come vedremo più avanti).
Ma ci sono anche due antecedenti che voglio brevemente citare. Da una parte l’articolo di qualche tempo fa di Chiccoconti sul suo bellissimo blog Cose Preziose a proposito dell’aspetto visuale della musica e del dialogo tra musica e immagine, e la sua promessa – in risposta a un mio commento – di fare un post vero e proprio sulle copertine dei dischi.
Dall’altra uno scambio che ho avuto con Riccardo Scandellari, un’altra persona di cui seguo con molto piacere e interesse i contenuti, che ha usato proprio la celebre copertina di TDSOTM in un post in cui però non era molto pertinente, e quando gliel’ho fatto notare mi ha simpaticamente risposto che la prossima volta avrebbe scritto “un post come ne vedo tanti: cosa ci insegnano i Pink Floyd sul marketing”.
Bè, io li aspetto entrambi con molta curiosità. Nel frattempo scrivo e dico la mia sul disco del prisma, omettendo volutamente cose molto note e soffermandomi piuttosto su altre (spero) meno risapute e, in chiusura, su cosa rappresenta per me.
TDSOTM non è un disco, è un pezzo di storia contemporanea che si situa a metà tra l’opera d’arte e il prodotto culturale destinato al consumo di massa. A cominciare proprio dall’aspetto visivo, con quell’artwork che ben lungi dall’essere una banale copertina è diventato una icona della cultura popolare.
Non sfugge come la copertina di un disco, come tutti i packaging del resto, oltre ad avere una sua ragion d’essere dal punto di vista strettamente funzionale, ha dei risvolti legati al marketing. E quella di TDS ne è un formidabile esempio.
Il prisma che rifrange un raggio di luce della copertina originale (1973) era un’elaborazione grafica opera di George Hardie su progetto dello studio Hipgnosis, autore di quasi tutte le copertine della band (e di molte altre memorabili copertine nella storia del rock).

Per la copertina dell’edizione in CD dei 20 anni ho letto invece (non mi ricordo dove) che sarebbe stata usata una foto di un esperimento con un prisma vero, fatto apposta per cercare di riprodurre il noto fenomeno fisico newtoniano che l’aveva ispirato.

In quella del SACD uscito in occasione dei 30 anni del disco, invece, una suggestiva reinterpretazione del prisma è stata realizzata su una finestra in vetro temperato colorato (o qualcosa del genere).

Nel cofanetto da collezione “Immersion Box Set” del 2011, con tanto tanto materiale inedito per gli appassionati (tra cui un interessantissimo Early Mix dell’album), lo troviamo invece moltiplicato.

E naturalmente ora che esce il box set dei 50 anni troviamo ancora il prisma, opportunamente declinato, a fare da segno grafico che accomuna tutte le iniziative celebrative messe in campo dalla band (dal management della band più che dalla band stessa, in realtà).
A questo punto si potrebbe pensare che sia stato attentamente progettato e studiato a tavolino da chissà quale genio del marketing. La curiosità invece è che questo artwork, così potente e magnetico, fu scelto tra le altre proposte preparate dallo studio grafico della band in un briefing con i 4 musicisti durato non più di due minuti.
Rick Wright suggerì, a differenza delle copertine del passato, qualcosa di “More graphic, less pictorial” a Storm Thorgerson. Lui e il suo sodale Aubrey Powell lavorarono a diverse proposte, ma ai Floyd bastò una rapida occhiata per scegliere quella che poi sarebbe diventata una delle copertine più celebri di tutti i tempi.
Pur priva del nome della band e del titolo (scelta controintuitiva e apparentemente anticommerciale), risultava distintiva e molto identificativa. Negli ultimi decenni del secolo scorso ha certamente contribuito ai clamorosi risultati commerciali del disco (si parla di 50 milioni di copie vendute ad oggi): è facile immaginare che spiccasse tra le altre, che invece si somigliavano tutte, sullo scaffale e nelle vetrine dei negozi di dischi. E che potesse funzionare magnificamente bene anche come teaser, cioè che oltre a catturare lo sguardo incuriosisse non poco chi la guardava.

In anni più recenti si è rivelato poi un formidabile volano dapprima per la vendita delle varie ristampe celebrative e poi per le iniziative di marketing di vario genere poste in essere da chi gestisce le fortune commerciali della band. L’esempio più lampante è la grafica della mostra ufficiale “Pink Floyd – Their Mortal Remains”, che dall’ormai lontano 2017 porta in giro strumenti musicali, attrezzature di scena e memorabilia legate alla storia floydiana.
Sto prisma è talmente declinabile (altro punto di forza, soprattutto nel marketing digitale) che l’ho declinato anche io: con qualche piccola modifica, ne ho voluto fare la favicon del mio blog. Non tanto per omaggio o fanatismo (oddio anche per quello lo ammetto). Ma soprattutto perché ben si presta a rappresentare questo luogo virtuale dove un caleidoscopio di stimoli apparentemente diversi e difficilmente conciliabili vengono filtrati all’ingresso dalla lente del mio punto di vista, della mia personalissima esperienza biografica (c’è qualcosa di personale in tutto quello che trovate qui sopra) e della mia scrittura, per poi uscirne sotto forma di articoli. Che parlano appunto di cose a volte molto lontane tra loro, ma tenute insieme in un modo o nell’altro proprio dalla mia personalità. O almeno così spero.
Dell’album in sé, come dicevo, non c’è molto da dire che non sia già stato detto. Forse val la pena soffermarsi un attimo sulla sua lunga e peculiare gestazione, una cosa che i fan accaniti sanno ma tutti gli altri magari non immaginano.
Il lato oscuro è stato il risultato di un work in progress dapprima concertistico, poi agli Abbey Road Studios, lungo quasi un intero anno. La suite nel suo complesso fu eseguita dal vivo sin dal febbraio del ’72, le sedute di registrazione iniziarono a giugno ma si conclusero solo a gennaio dell’anno successivo, e infine nel mese di marzo uscì il disco. Così è interessante notare l’evoluzione anche radicale di alcuni brani della tracklist, le scelte musicali compiute dalla band tra il momento del suo concepimento e il prodotto finito.
Il nuovo cofanetto per collezionisti, che (prendendo in prestito un aggettivo che uso spesso nel mondo del vino) oserei definire opulento, in realtà non aggiunge nulla di inedito alla storia. Contiene essenzialmente il nuovo remaster del disco originale e l’esecuzione live alla Wembley Empire Pool del 1974, una registrazione d’archivio che evidentemente è stata ritenuta la miglior testimonianza di come l’album veniva eseguito dal vivo dalla band nei mesi immediatamente successivi alla pubblicazione dell’opera.
Ma questo live era stato già pubblicato nel 2011 all’interno del già citato cofanetto Immersion Box Set, che conteneva molte altre cose interessanti e inedite sul disco del prisma e aveva dunque – a mio parere – un valore superiore.


La vera chicca, parlando di bootleg, è stata invece pubblicata sul canale YT della band lo scorso dicembre: 18 concerti del periodo 1972-73, pubblicati per rinnovare il diritto degli autori sulle registrazioni (pur essendo di origine pirata e di pessima qualità), tra cui proprio la prime delle esecuzioni in cui The Dark Side Of The Moon viene presentata come tale e che risale al 17 febbraio del 1972 al Rainbow Theater di Londra. Appunto, un anno prima della pubblicazione.
L’audio è quello di un bootleg, quindi non fa fede la qualità: molte cose dovevano suonare meglio di come si sentono in questa registrazione. Il punto non è questo.
La questione invece è: com’era Dark Side all’inizio, la prima volta che è stata suonata? Riconoscibile, ma abbastanza diversa. Il telaio era già definitivo, la successione dei brani non ha subito particolari modifiche. Anche l’impianto concettuale era già chiaro ed è rimasto quello.
Concerto dopo concerto, e poi in studio, però alcuni brani sono drammaticamente migliorati (Time in particolare); altri (segnatamente la intro Speak To Me, The Travel Sequence e The Mortality Sequence) sono stati sostituiti con brani molto diversi e più interessanti frutto di intuizioni, esperimenti sonori e persino di circostanze fortuite (si pensi ad esempio alla clamorosa interpretazione di Clare Torry in The Great Gig In The Sky); tutti gli altri sono stati rifiniti e comunque perfezionati.
Per chiudere, veniamo brevemente al dato autobiografico. La mia storia con questo feticcio inizia da adolescente, con mio padre che in modo molto sobrio e senza troppe insistenze me ne consiglia l’ascolto. La circostanza l’ho citata anche in un altro articolo del blog, quello che in quella occasione non ho scritto però è che non è stato amore al primo ascolto; sulle prime ricordo anzi un vago senso di smarrimento.
Mi aspettavo un disco tradizionale, mi sono ritrovato catapultato nel fascino magnetico e misterioso del “disco del prisma”, con un battito cardiaco ad aprire e chiudere, brani di lunghezza “irregolare” con confini indefiniti e che sfumano l’uno nell’altro, suoni strani provenienti dal futuro, un brano urlato a squarciagola, inserti audio di gente che diceva cose che naturalmente non capivo, sveglie che suonano all’unisono, tintinnio di monete e altre trovate inaspettate. Decisamente troppo, per le mie orecchie e la mia mente di adolescente che all’epoca andava matto per il greatist hits dei Queen.
Non so ricostruire le tappe, ma nel tempo quel disco proveniente da un’altra dimensione è entrato sotto pelle, ascolto dopo ascolto quei testi sono diventati delle poesie che risuonavano con i miei pensieri e quella musica con i miei stati d’animo.
Non penso che mio padre si sia mai reso conto dell’influenza profonda che quel discreto consiglio di ascolto ha poi avuto su tutta la mia vita di ragazzo e adulto, anche se poi abbiamo visto insieme diversi concerti dei membri dei Pink Floyd e ha visto crescere chiaramente negli anni il mio fanatismo per questa band ben oltre il suo.
Quel prisma, quella involontaria e geniale trovata di marketing, per me rappresenta un filo invisibile che ci lega e ci legherà per sempre, anche ora che lui non c’è più. Una di quelle cose a cui difficilmente puoi dare un nome e che poi, quando diventi padre, speri anche tu in qualche modo di riuscire ad instaurare con tuo figlio.
Questa è la sua copia di The Dark Side, la nostra copia del disco del prisma. Io e mia sorella la conserviamo, che ci crediate o no, come una delle cose più care che ci lega a lui. Dentro non ci sono più i poster della band e le card (il marketing) che pure corredavano il vinile, chissà che fine avranno fatto.
Ci sono invece i suoi appunti di ascolto e le sue personali valutazioni, che evidenziano come in qualche caso anche lui (come me le prime volte del resto) non avesse ben capito a quali canzoni dovevano riferirsi i vari titoli (On The Run, con i suoi sintetizzatori da incubo futurista, “nastro giovane e allegro”?!). ☺
Col senno di poi, mi piace pensare che quegli appunti fossero un assist involontario rivolto a me, una sorta di invito a voler sapere e capire tutto di un disco spiazzante, oscuro e persino misterioso, quando ti capita tra le mani e lo ascolti la prima volta. Un’opera affascinante che continua a fare la storia della musica e che ci legherà per sempre.
Ottimo post! E si di cose da dire – da floydiano a floydiano – ce ne sarebbero a decine… Conosco anche io bene i bootleg che mostrano l’evoluzione di “Eclipse” (così si chiamava il loro disco in gestazione), comprese la “Time” con armonizzazioni diverse… Piccola curiosità è che in tutte le copertine i colori sono 6 e non 7, come pretenderebbe invece l’arcobaleno newtoniano, chissà perchè! Anche io andai a Roma a vedere la mostra, e acquistai il catalogo delle opere dello studio Hipgnosis!
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Qualcuno ipotizza perché sul fondo nero l’indaco non si sarebbe visto.
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Ah! Grazie della notizia! Sai che su The Wall ci ho fatto la tesi di laurea?
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Troviamo qualcosa sul tuo blog in proposito? Sarebbe bello se postassi qui il link.
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