Spare Parks: Joshua Tree, Petrified Forest e Mesa Verde.

C’è sempre qualcosa che rimane fuori. Nei dischi, nei viaggi, nei racconti. Spesso non per mancanza di valore, ma per questioni di spazio o di tempo, o semplicemente perché il progetto ha preso un’altra direzione.

Quando i Pink Floyd stavano lavorando al film The Wall, stavano per pubblicare un album parallelo con versioni alternative rispetto a quelle presenti sul disco (uscito un paio di anni prima), brani inediti e scarti preziosi: si ipotizzò di chiamarlo Spare Bricks. Non vide mai davvero la luce in quanto tale, piuttosto alcuni di essi furono recuperati e inseriti nella tracklist del successivo (e molto controverso) The Final Cut.

Volete un altro esempio rock? Coda dei Led Zeppelin. Uscito nel 1982, due anni dopo lo scioglimento del gruppo a seguito della morte di John Bonham: i brani risalgono a vari periodi precedenti nella storia del gruppo e non sempre erano stati scartati per mancanza di qualità, ma più spesso perché non si inserivano nel contesto degli album originari.

In questo articolo voglio raccontare di alcuni parchi nazionali negli States che ho visitato nei miei viaggi in Harley ma che non hanno trovato collocazione nei precedenti articoli. Sono i parchi rimasti fin qui fuori dal racconto, ma non dai viaggi (né dai ricordi). Sto parlando di Joshua Tree in California, Petrified Forest in Arizona e Mesa Verde in Colorado.


Joshua Tree National Park è stato in realtà il primo parco in assoluto che ho visitato nell’Ovest americano. L’anno prima eravamo stati in macchina in Florida e avevamo visto le Everglades; al nostro ritorno in Italia, presi la patente e comprai la mia Iron: fu così che io e il mio amico Simone diventammo harleysti, formammo il nostro “branco di due” e decidemmo di tornare negli States all’inizio dell’estate del 2013 per il nostro primo road trip in sella a delle Harley Davidson.

La partenza fu da Los Angeles. Ricordo molto bene il bike pick up e le emozioni di quelle prime miglia sulla mitica Pacific Coast Highway in direzione sud, mentre cercavo di prendere confidenza con una Harley parecchio più grande della mia e di convincermi che ero davvero su quelle strade, che non stavo sognando ad occhi aperti.

Già nel pomeriggio tuttavia ricordo che mi sentì più tranquillo e confidente, e iniziammo davvero a goderci il viaggio; quella sera dormimmo a Palm Springs, una cittadina abbastanza ordinaria ai margini del Mojave Desert e ai piedi del Mount San Jacinto. Lì ci consigliarono come attrazione di zona la funivia che sale in vetta, ma la ignorammo.

A poche miglia da Palm Springs inoltre ci sono Indio e Coachella, ancora oggi sede di un importante festival in teoria dedicato alla musica rock ma in pratica ormai frequentato più che altro da figli di papà che possono permettersi il costo del biglietto e da presunte influencer smaniose di mostrare ai loro follower di esserci state. Ignorammo anche questi possibili punti di interesse.

Così il giorno successivo – il secondo dunque nel nostro itinerario – montammo in sella seguendo il percorso precaricato sul Garmin, e presto nel mattino facemmo la conoscenza dei bizzarri “alberi” che danno il nome al parco Joshua Tree, e con l’asfalto incredibilmente liscio delle strade sinuose che lo attraversano.

Lasciammo la Highway 62, oltrepassammo la West Entrance e dopo una decina di miglia prendemmo la deviazione per la Hidden Valley, considerata la mecca degli scalatori per le sue pareti rocciose.

Sul parco in sé non ho molto da dire che già non si sappia. E’ molto grande e in quel periodo anche poco trafficato per via del clima torrido. Ci divertimmo davvero molto a percorrerlo e fare qualche sosta per scattare foto ricordo, come quella al belvedere da cui si vede la temibile faglia di Sant’Andrea.

Joshua Tree è famoso per il paesaggio desertico surreale puntellato dai cactus e dalle caratteristiche yucche, per le sue rocce granitiche e per l’atmosfera mistica che in passato ha ispirato fotografi, hippy e musicisti (sì, anche gli U2 per il loro album del 1987).

Curiosità: i Joshua Tree, e ovviamente il parco, devono il loro nome ai coloni mormoni, ai quali i rami protesi verso il cielo ricordarono le braccia del profeta Giosuè che indica la strada per la terra promessa.

Dopo qualche ora uscimmo a Twentynine Palms e imboccammo la Amboy Road che con il suo tracciato per lo più rettilineo, dopo una trentina di miglia di deserto infernale, ci portò per la prima volta dritti e inconsapevoli sulla mitica Route 66.


Petrified Forest National Park invece lo attraversammo l’anno successivo, dopo essere stati al Meteor Crater il giorno prima e aver dormito a Winslow.

Io e Simone concepimmo questo nostro terzo viaggio on the road negli Stati Uniti (il secondo in Harley Davidson) come una vera e propria impresa. La Florida in auto nel 2012 era stato il debutto, il grande West da bikers l’avevamo già conquistato nel 2103; ora volevamo di più, e volevamo farlo con delle Harley Davidson più grandi e più accessoriate (il requisito necessario era lo stereo a bordo).

Cosa ci poteva essere “più” di quello che già avevamo fatto? Ma naturalmente Easy Rider, il viaggio definitivo, la traversata del continente da una costa all’altra. Progettai un itinerario di 16 giorni e 14 tappe che, attraverso 8 stati e 4 fusi orari (oltre 3.500 miglia), ci avrebbe portato dal Pacifico al golfo del Messico, a New Orleans. Quando seppe dei preparativi, chiese di unirsi a noi il nostro amico Michele.

Confesso che avevo qualche timore, avere un compagno di viaggio con cui ti trovi bene é una alchimia molto rara, in questi casi cambiare qualcosa è un grosso rischio. Inoltre il nostro era un viaggio molto particolare e un po’ estremo. Tuttavia le cose andarono bene, ci divertimmo molto anche quella volta. Michele si rivelò una presenza discreta e piacevole, un carattere silenzioso ma non musone, in breve una persona intelligente. Stavolta dunque il nostro era un “branco di tre”.

Alcune attrazioni nel West le avevamo già viste l’anno prima e le rivedemmo (ad esempio Route 66 e Monument Valley), molte però stavolta le lasciammo fuori dall’itinerario (Grand Canyon, Page, Bryce, Zion) e optammo per visitarne altre, magari meno note, dovendo muoverci per forza verso est. Il Petrified Forest era tra queste.

Percorremmo la strada che attraversa il parco da sud verso nord, lungo il tracciato ci sono un paio di punti in cui fotografare ed osservare da vicino gli alberi pietrificati.

Queste meraviglie risalgono a oltre 200 milioni di anni fa, un tempo incommensurabile per un dinosauro figuriamoci per un essere umano; sono enormi spezzoni di tronchi di legno cristallizzato in quarzo sparsi qua e là nel paesaggio desertico, laddove un tempo presumibilmente c’erano rigogliose foreste. Di sicuro ci fermammo a Crystal Forest e The Tepees, forse anche a Jasper Forest.

In alcuni punti di interesse (da noi ignorati) si possono anche ammirare fossili di dinosauri e pitture rupestri, in pratica il parco è una gigantesca sala espositiva preistorica all’aperto: un vero paradiso per gli amanti della geologia e della paleontologia.

Superata la Intestate 40 infine, è molto suggestivo anche l’ultimo tratto di strada prima di uscire dal parco, chiamato Painted Desert, con alcuni affacci panoramici che permettono di ammirare il paesaggio delle badlands caratterizzato da colori e sfumature e insolite.

L’ubicazione del parco in Arizona è piuttosto fuori mano rispetto agli itinerari turistici più battuti che collegano le attrazioni più famose del grande West USA. Ma se vi trovate a passare da queste parti per altre ragioni, diciamo così, può senz’altro valere la pena arrivare fin qui e programmare un paio di soste.

Dopo forse tre ore, noi proseguimmo verso nord e all’altezza di Ganado imboccammo una vecchia Indian Route che ci avrebbe portati a metà del pomeriggio fino a Kayenta (Monument Valley).


Mesa Verde National Park è ancora meno conosciuto del precedente, essenzialmente perché si trova in Colorado dunque già al di fuori di quello che normalmente viene considerato il West americano. Lo visitammo sempre in quel viaggio un paio di giorni dopo, nel pomeriggio: la mattina eravamo partiti da Moab (Utah) dopo aver percorso la scenic drive interna al parco di Arches e scattato qualche foto nei punti più suggestivi.

Le attrazioni a Mesa Verde sono principalmente rappresentate dai villaggi rupestri degli Anasazi, un enigmatico popolo di nativi che abitava questi insediamenti tra il 550 e il 1.300 d.C. e che, altrettanto misteriosamente, a un certo punto li abbandonò e fece perdere le proprie tracce.

Queste particolari abitazioni chiamate cliff dwellings erano scavate o costruite nelle rientranze di pareti rocciose, sporgenze o falesie e collegate tra loro da scale, sentieri e passaggi in legno. In pratica, invece di costruire a terra, gli indiani ancestrali sfruttavano le grandi nicchie naturali nelle pareti di canyon o di montagne, edificando case in pietra e argilla dentro questi ripari naturali.

Erano veri e propri complessi residenziali e religiosi, con stanze circolari chiamate kiva usate per riti spirituali. I siti sono ancora oggi oggetto di scavi e ricerche archeologiche, non si sa molto dei loro abitanti e ogni tanto emergono nuove ipotesi o interpretazioni. I vari villaggi sono distanti diverse miglia dall’ingresso del parco e, in qualche caso, anche tra di loro, dunque bisogna scegliere prima quali visitare.

Noi andammo a Spruce Tree House e forse a Cliff Palace (anche stavolta non ricordo bene). Le visite guidate vanno prenotate in anticipo e durano molto più di un’ora. Altrimenti si trascorre piacevolmente un’oretta a gironzolare in autonomia tra le abitazioni ancestrali (davvero ben conservate), a dare un’occhiata all’interno di alcune di esse e a immaginare che tipo di vita e di organizzazione sociale avessero gli abitanti di questi luoghi.

Completano il parco alcuni siti più isolati, localizzati lungo la strada che percorre la superficie piatta della mesa, con altri tipi di abitazioni e ritrovamenti.

Quella sera dormimmo a Durango. In Colorado il paesaggio è già molto diverso, anche nei colori, da quello del grande West americano. Il verde diventa la dominante cromatica, prendendo il posto dell’arancione scuro della terra arsa dell’Arizona e del giallo dei deserti dello Utah.

Il giorno dopo superammo i valichi montani della Million Dollar Highway e scendemmo a Santa Fé, in New Mexico, dove secondo alcune teorie si stabilirono anche i discendenti dei misteriosi indiani Anasazi (sarebbero gli odierni abitanti del Pueblo di Taos).


Ecco, questi tre parchi sono i miei Spare Parks, tre outtakes dai miei viaggi americani: vissuti, ammirati, ma di cui ancora non avevo parlato. Non perché non meritassero, ma semplicemente perché il racconto – come spesso accade – impone di scegliere, tagliare, lasciar fuori.

Le cose scritte fin qui mi avevano portato da un’altra parte, mettiamola così. Ma in questo articolo questi ricordi sono riaffiorati in superficie e si sono finalmente presi il loro spazio.

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