In Harley attraverso gli States: ingenuità ed esperienza, cosa ho capito on the road.

A voler cominciare dall’inizio, tutto ha inizio nel 2012. In realtà le suggestioni, soprattutto musicali e letterarie, che mi hanno spinto a fare un certo tipo di viaggio in quel continente sterminato risalgono a chissà quando (e potete facilmente indovinare quali siano); immagino che la mia vita sia stata puntellata qua e là di letture, brani e film che hanno lavorato in modo più o meno sotterraneo e spiegano quello che ho fatto (e come l’ho fatto). Ma di certo prima del 2012 non avevo mai preso in considerazione di fare questo tipo di viaggi negli Stati Uniti d’America, quindi partiamo da lì.

Dal 2012 al 2015 sono stato in giro sulle strade d’America per 4 volte consecutivamente. I viaggi di cui intendo parlare sono quelli in Harley Davidson del 2013 e del 2014, ma non farò un reportage o una cronistoria completa. Piuttosto procederò per istantanee e stati d’animo, luoghi e strade dove è successo qualcosa. Qualcosa dentro di me, sia chiaro. Perché in realtà la cosa curiosa di alcuni luoghi in America è che letteralmente non c’è nulla, e quindi non accade nulla di particolare o non c’è nulla di particolare da vedere. Solo spazi sconfinati. Così, se risuonano con qualcosa che hai dentro scocca la scintilla; altrimenti ti sembrerà che lì intorno non ci sia niente e, dopo tanti chilometri, ti ritrovi a chiederti “Ma che c’è di tanto speciale, perché la gente viene fin qua?!”.

Prima però, per dare un minimo di contesto, non posso non parlare del primo viaggio, quello del 2012. E’ stato seminale, ecco perché è un po’ l’inizio di tutto. Ero in quella fase della vita in cui hai assoluta libertà di decidere cosa fare del tuo tempo libero e delle tue ferie, per svariate ragioni per tanti anni ciò non era accaduto. Simone, che poi sarebbe diventato il mio “fratello di Harley” (lo è ancora, nonostante l’abbia venduta…) era in una situazione praticamente identica. Ci eravamo conosciuti giocando a calcio circa 10 anni prima; negli anni a seguire ci eravamo visti di tanto in tanto, insieme ad altri due amici, per una cena e tante chiacchiere, come accade in questi casi. Una di quelle sere ci siamo detti “Andiamo in vacanza da qualche parte”. Mia sorella mi aveva parlato della possibilità di volare a condizioni agevolate sugli invenduti della compagnia aerea per cui lavora; e Laura, una mia collega, mi aveva probabilmente parlato di Miami e delle Florida Keys. Sembrava una buona idea, o comunque non ne avevamo altre migliori; così di lì a qualche mese siamo partiti.

Siamo stati 2 notti a Miami Beach, in un hotel sulla Collins, e poi abbiamo girato la Florida. E’ stato il nostro primo road trip, a bordo di una macchinetta naturalmente presa a noleggio. Siamo scesi fino a Key West, poi siamo tornati a Miami passando per la costa est, Orlando, e infine Cocoa Beach. Ci siamo trovati bene, cosa che non puoi dare per scontata considerando il particolare tipo di viaggio e il fatto che per la prima volta io e lui viaggiavamo insieme. E’ in quell’occasione che abbiamo scoperto che ci sarebbe piaciuto viaggiare sulle strade d’America. E l’Harley Davidson? Quella l’abbiamo vista all’uscita di un bar sulla spiaggia a Sarasota, dopo una bella birra rinfrescante. E’ stato un colpo di fulmine, una apparizione: figo il road trip sulle strade d’America, ma perché allora non farlo in Harley Davidson?! Il prossimo anno saremmo tornati, e sarebbe stato come nei film. Deciso.

Il problema è che nessuno dei due aveva mai guidato una Harley, a dirla tutta io non avevo neanche la patente per la motocicletta. Quando Simone me lo fece notare, risposi “Scommetti che torno e me ne compro una?!”. Lui disse “Non ci credo. Se lo fai, me la faccio pure io”. In effetti ricordo sempre con una punta di imbarazzo, misto ad autocompiacimento, che prima acquistai la mia Iron 883 e poi – a distanza di un paio di settimane – feci l’esame di guida. Qualche mese dopo il nostro rientro, comunque, eravamo in sella alle nostre nuove Harley, e già stavamo pianificando il nostro primo viaggio da riders sulle strade d’America.

Nel 2013 partimmo a inizio giugno, abbiamo fatto 2.300 chilometri nel West in 7 giorni. Nessuno dei due c’era stato prima, ma era ovvio che saremmo andati lì. Non puoi non andare lì, se vuoi fare quel tipo di viaggio. Il programma prevedeva un paio di giorni da turisti “normali” a Santa Monica, poi abbiamo ritirato le due Harley che avevamo noleggiato a Los Angeles e siamo partiti per la nostra prima grande avventura.

La cosa che più voglio dire di questo viaggio è che eravamo degli esordienti totali. Non avevo un’idea precisa dell’itinerario, delle distanze, delle strade. Sapevo che avrei assolutamente voluto vedere il Grand Canyon, la Monument Valley e che dovevamo a tutti i costi percorrere la mitica Route 66, ma non avevo la più pallida idea di cosa avremmo visto prima e cosa dopo. Così abbiamo scelto un itinerario abbastanza classico; 4 stati: California, Arizona, Utah e Nevada. Partenza da Los Angeles e rilascio delle bike a Las Vegas. L’itinerario era memorizzato e precaricato su un Garmin che avevamo noleggiato dall’organizzazione e che era montato sulla mia Road King, quindi era chiaro che sarei stato io il front runner. Simone mi avrebbe guardato le spalle con la sua Fat Boy.

Bene, uno dei momenti più wow che ricordi è quando il secondo giorno, dopo circa 50 miglia nel Mojave Desert, siamo arrivati a un incrocio a T nei pressi di un passaggio a livello. Venivamo da Twentynine Palms, un avamposto ai margini del parco di Joshua Tree; avevamo attraversato una regione che se la vedi su una mappa c’è tratteggiato un bacino d’acqua: quello è d’inverno, il resto dell’anno il lago evapora e tu ti ritrovi in pieno deserto. La mappa non è il territorio. Eravamo piuttosto affaticati, così ci siamo fermati e Simone si è seduto a riposare all’ombra di un cespuglio, uno dei pochi, ai margini della strada.

Guardandomi intorno, a quel punto ho visto il segnale sull’asfalto: eravamo sulla junction con la Route 66, e dopo il passaggio a livello c’era Roy’s, un vecchio distributore dove ancora era possibile fare rifornimento a una pompa di benzina vecchia almeno di 50 anni e comprare qualcosa da bere per rinfrescarsi. Come nei film, ma era tutto vero. Ci trovavamo ad Amboy, poche case in rovina lungo l’originario tracciato della mitica Mother Road; io non ne avevo mai sentito parlare prima, ma è un autentico landmark. Ovviamente abbiamo fatto una sosta, e poi abbiamo proseguito percorrendo un altro bel tratto in preda all’euforia e alle suggestioni, per tornare infine sulla più moderna e trafficata Interstate 40 che ha preso il posto della 66 intorno alla fine degli anni ’70.

Non so spiegare perché, in effetti non so spiegare bene neanche cosa significa per me; ma mi sono innamorato di quel tratto di strada così remoto, sperduto e magnetico. La Route 66 è proprio come l’hai vista nei film, solo che quando ti ci trovi realmente questa cosa ti sorprende. Mentre vai, ai lati della strada ogni tanto noti delle piste sterrate. Le segui con lo sguardo ma non vedi dove arrivano: non una casa o una roulotte, niente. Solo pianure aride e l’orizzonte polveroso. Di chi cazzo sono quelle cassette delle lettere?!

Altre volte incroci qualche rudere, e ti chiedi se ancora qualcuno ci abiti, in totale solitudine, cercando di sfuggire per qualche ragione al mondo iperconnesso in cui ci ritroviamo a vivere. Pensi anche alla vita di tutte le persone che, in una direzione e nell’altra, hanno viaggiato su quella strada alla ricerca di qualcosa, molto spesso una vita diversa, in un posto migliore. Ci sono vari tratti del tracciato originario ancora percorribili, in California ed Arizona; nei miei viaggi successivi ho sempre cercato di percorrerne più miglia possibile, non chiedetemi perché. Nonostante sia praticamente in stato di abbandono e non c’è nulla, penso che sia un luogo magico, pieno di vita passata e di vibrazioni; io i posti così li chiamo posti dell’anima.

Nel nostro secondo viaggio negli States, l’anno successivo, era tutto diverso. Cominciamo col dire che eravamo in 3: nel senso che, sapendo dell’incredibile viaggio che avevamo fatto l’estate precedente, si era aggiunto al “branco di due” il nostro amico Michele.

Abbiamo avuto cura di noleggiare delle Harley Davidson ancora più grandi e confortevoli: le Electra Glide, serie Touring. A dispetto della stazza, sono veicoli molto maneggevoli mentre sono in marcia. Sono “vestite”, ovvero carenate, quindi il corpo del pilota è interamente protetto dal vento e da tutto quello che ti arriva addosso mentre vai. Hanno sacche laterali e baule posteriore per alloggiare i bagagli, niente zaino sulla schiena come nel primo viaggio. Inoltre sono dotate sia del limitatore che del regolatore della velocità: due optional da non sottovalutare, quando fai tutte quelle miglia in scenari che non smetteresti mai di ammirare. Sono così comode che nelle soste per il rifornimento potresti persino fermarti un pò e schiacciarci su un pisolino. Soprattutto avevano la musica, ci sono radio/lettore cd e casse alloggiate con gli altri strumenti di bordo sotto lo shield: il commento sonoro era l’unica cosa che davvero ci era mancata, nel nostro primo viaggio in Harley.

Esagerando un po’, potrei anche arrivare a dire che sono voluto tornare in America perché la prima volta, mentre percorrevo quelle strade, avevo una Harley che non mi consentiva di ascoltare a tutto volume le mie canzoni preferite. Magari un giorno pubblicherò la playlist dei pezzi che avevo con me. Con la musica giusta, in posti come quelli, puoi entrare in trance. Uno su tutti, prendete Hotel California. L’avrò ascoltata cento volte, mentre andavo su rettilinei interminabili battuti dal vento che si perdevano all’orizzonte, dritti davanti a me: ero io il protagonista della canzone, brividi veri.

On a dark desert highway

Cool wind in my hair

Warm smell of colitas

Rising up through the air

Up ahead in the distance

I saw a shimmering light

My head grew heavy and my sight grew dim

I had to stop for the night

Hotel California, The Eagles

Ma la cosa che davvero era diversa, la seconda volta che siamo andati, è che eravamo “experienced”. Questo significa che la mia ambizione di biker e harleysta era esponenzialmente cresciuta, alimentata a dismisura dalla felice esperienza dell’anno prima. In occasione del secondo viaggio, ho disegnato per intero ogni tappa, letteralmente ogni strada percorsa, ogni singola svolta, ogni cittadina dove avremmo dormito o fatto sosta nell’arco della giornata passata in moto. La mappa non è il territorio, ma Google Maps è molto più di una banale cartina stradale… Ho scelto personalmente cosa vedere e cosa no, l’itinerario stavolta non era proprio lineare, principalmente perché assecondava in tutto le mie suggestioni. Saremmo passati per posti a volte decisamente fuori mano e meno noti, che normalmente in un itinerario “classico” (di quelli che fa chi va la prima volta in America e con un limitato range di giorni a disposizione) non trovano posto per ovvie ragioni organizzative.

5.838 chilometri, attraverso 4 fusi orari. Siamo partiti nuovamente da Los Angeles a fine maggio, ma volevamo superarci; volevamo l’impresa: da un oceano all’altro. Scelsi New Orleans come tappa di arrivo del nostro coast to coast e non Chicago, dove pure finisce la Route 66, proprio per questa ragione (a Chicago, come noto, non vedi l’oceano). Anche i protagonisti di Easy Rider si dirigevano a New Orleans, e mi piaceva l’idea di lasciarmi ispirare, almeno in parte, dal loro itinerario; chiaramente, mi auguravo anche di non fare esattamente la loro stessa fine.

Oltre la capitale del jazz (New Orleans appunto), lungo il percorso avremmo fatto un’altra tappa estremamente interessante, vale a dire Austin. Questa città texana è rinomata per essere la capitale mondiale della musica live; immagino che tale titolo gli abitanti glielo abbiano attribuito un pò arbitrariamente, ma comunque è vero che sulla sesta strada la sera suona una band praticamente in ogni locale o bar; a volte, durante l’esibizione, escono a suonare pure per strada, sul marciapiede. Anche se il paesaggio in Texas è molto più monotono e meno suggestivo che nel West, non mi sono pentito di averlo disegnato così. E il French Quarter di New Orleans merita da solo una visita.

Comunque il punto è che, in occasione del secondo viaggio, è stato meraviglioso documentarsi e prepararsi meticolosamente a quella che consideravamo alla stregua di una impresa, poi viverla giorno per giorno (non senza imprevisti, magari anche di questo parlerò), e infine compierla davvero. Un piacere diverso rispetto alla meraviglia, all’ingenuità, allo stupore, alla sorpresa sperimentati nel viaggio precedente. Stavolta sapevo dove volevo andare e come ci sarei potuto arrivare. Un approccio diverso, insomma. Potrei dire che è stato il viaggio della maturità, della consapevolezza, della ricerca. E penso che anche Simone direbbe lo stesso. La seconda volta, sulla Route 66 non ho scoperto di esserci finito dopo esserci finito: non so se mi spiego.

Una cosa però, tra le altre, accomuna entrambi i miei viaggi in Harley negli States: non stavo viaggiando per arrivare, ma per andare. E andare mi faceva stare bene. Ero perfettamente consapevole di questo, e mi sono goduto ogni singolo giorno. Ogni miglio. In questo tipo di viaggi non conta molto quello che trovi la sera quando arrivi, i motel americani poi sono davvero tutti uguali. Conta quello che hai visto durante il giorno, cosa hai provato lungo il percorso. A tal proposito, ci sono molti altri posti dell’anima in cui sono stato, negli States in sella ad una Harley. A distanza di anni, custodisco ancora dei ricordi sorprendentemente vividi di alcune delle intense emozioni che ho provato. L’America on the road mi è rimasta dentro, in un certo senso è come se fossi ancora lì. Dopotutto anche l’Hotel California è una metafora, e penso non sia un caso il fatto che la canzone finisca così:

“Relax”, said the night man

“We are programmed to receive

You can check out any time you like

But you can never leave”