Lo avrete capito: mi piace filtrare ciò di cui scrivo attraverso la lente dei miei ricordi, della mia esperienza personale, del mio punto di vista. E’ una costante del blog, in effetti credo sia ciò che gli dà un senso. A tal proposito, ricordo di aver visitato una delle aziende capofila della perentoria affermazione del Sagrantino nell’olimpo dei vini di qualità, italiani e non solo. Si tratta della Arnaldo Caprai, vigne e cantina splendidamente posizionate sui primi tornanti della strada che da Foligno conduce a Montefalco.
Per la verità ho ricordi un po’ vaghi (e stavolta davvero nessuna foto, purtroppo). Andai con un compagno di studi del corso di sommelier; in altre parole, un ottimo compagno di bevute. Riparlandone con lui sono riuscito a recuperare alcune diapositive tra le pieghe della mia notoriamente disastrosa memoria. A mia parziale scusante va anche precisato che sono ormai passati quasi dieci anni, abbiamo convenuto che poteva essere il 2011. Comunque mi ha ricordato che dopo Montefalco abbiamo pernottato da qualche parte in centro a Perugia, per poi il giorno successivo partire di buon’ora e andare dritti a Montalcino. Un bell’itinerario davvero, lungo il quale avevamo questi due riferimenti rappresentati dal Sagrantino e dal Brunello. Un vero e proprio road trip, dal quale evidentemente contavamo di tornare molto più ferrati in materia di grandi rossi italiani e quindi pronti, in definitiva, per l’impegnativo esame che avrebbe dovuto finalmente consacrarci sommelier. Adoro il vino, è stata l’unica volta in vita mia in cui essere uno studente alacre e coscienzioso (cioè un secchione) coincideva anche con l’essere cool (cioè un fico).
Della visita alla tenuta Caprai ricordo che mi piacque molto il giro in vigna. L’agronomo (non so se fosse l’unico, magari era parte di un team) era un ragazzo sorprendentemente giovane. Questo mi fece realizzare che il vino, che avevo sempre associato alla generazione dei miei nonni (che avevano le vigne e facevano il loro vino) non è questione solo di esperienza, evidentemente. Ma anche di preparazione. Il vitigno e la tecnica di allevamento, la densità di impianto e la resa per ettaro, la composizione dei terreni in cui metti a dimora le barbatelle, l’esposizione alla luce solare a agli altri agenti atmosferici, il microclima: tutte queste cose (e molte altre per la verità) sono altrettante variabili sulle quali ragionare e fare delle scelte, quando si decide di impiantare un vigneto o quando sei responsabile della sua conduzione.

Ogni decisione influenza quello che poi trovi nel bicchiere, in termini di qualità del prodotto finito. Al centro di tutto c’è la componente umana, che a monte è chiamata a fare quelle scelte tenendo conto di tanti fattori, anche economici. Un vigneto non diventa produttivo prima di 5 anni, quindi è un investimento e una immobilizzazione di capitale non indifferente: che tu abbia un progetto industriale o, all’altro estremo, sia un vignaiolo di altri tempi che coltiva la vigna di famiglia, devi aver chiaro subito che tipo di vino vuoi fare. Ma poi, a maggior ragione, davvero non puoi prescindere dalla preparazione e dalla competenza necessaria per aver cura dei filari.
Ricordo anche che durante il giro in vigna erano previste diverse tappe, la tenuta Caprai è molto estesa, ma purtroppo dovemmo interrompere il percorso causa sopravvenuto maltempo e riparare in tutta fretta in cantina. Qui si apre un altro mondo: se la vigna è il dominio dell’agronomo, la cantina è il regno dell’enologo. Altra scienza, altra materia che oltre a una grande preparazione tecnica richiede aggiornamento continuo delle conoscenze (e altrettanti investimenti) per tenere le tecniche di vinificazione al passo con i tempi.
L’agronomo e l’enologo, ovvero chi coltiva l’uva e chi la trasforma in vino. Un tempo erano la stessa persona, magari il proprietario del fondo (sì, sto pensando ancora ai miei nonni). Oggi, proprio per via della specializzazione e del progresso tecnico-scientifico, càpita più spesso che siano due figure diverse e capite che molto dipende dalla loro intesa e collaborazione. Ho trovato affascinante questa faccenda, questa coppia per certi versi mi ha ricordato la coppia creativa art director- copywriter da cui dipende la buona riuscita di una campagna di comunicazione: so bene che il parallelo con il mio specifico lavorativo regge solo fino a un certo punto, ma mi piace immaginare anche qui un incontro-scontro di storie, sensibilità e caratteri molto diversi; un rapporto di amore e odio la cui chimica può decretare il successo o il fallimento di una umana impresa.
Romanticherie a parte, la visita terminò ovviamente con la degustazione dei vini nell’enoteca della tenuta. Ricordo una sala molto bella e scenografica, pensata come spazio di accoglienza del visitatore e allo stesso tempo di celebrazione, a cui era affidato il compito di raccontare la storia aziendale; le bottiglie più rappresentative facevano bella mostra di sé esposte all’interno di teche di cristallo. Tutto molto studiato; premeditato, per usare un termine a me caro e a cui non sempre associo connotati positivi. Ma non in quel caso evidentemente, dato che conservo un bel ricordo di quell’enoteca: la reputai il naturale compimento del percorso esperienziale propostoci dall’azienda, iniziato in vigna e proseguito in cantina.

Il proprietario Marco Caprai del resto è, come scrivevo, uno di quelli che ci ha creduto di più e che più ha investito sulla valorizzazione del Sagrantino, un vitigno autoctono umbro che fino agli anni ’70 veniva vinificato quasi esclusivamente per la produzione di vini rossi passiti (dolci) e che rischiava seriamente di sparire dal patrimonio ampelografico nazionale. E’ un vitigno non particolarmente vigoroso, né eccessivamente produttivo. Oltretutto se ne ottiene un vino marcatamente tannico, organoletticamente sbilanciato sulle durezze (almeno all’inizio).
E se vi state chiedendo cosa sia esattamente la tannicità, bevete un buon Sagrantino: lo capirete subito. E’ quella secchezza delle gengive (tecnicamente si direbbe astringenza) che può capitare di provare dopo aver deglutito un vino rosso (è dovuta ai tannini, sostanze non presenti nelle uve bianche). Ecco, il Sagrantino ha tipicamente una tannicità mostruosa. Eccessiva, se si trattasse di un Cabernet Sauvignon (che pure a tannino non scherza) o di un Merlot. Ma nel caso di un Sagrantino “Non è difetto, è carattere”. A patto chiaramente di avere una buona uva e averla vinificata bene. I grandi vini da uva Sagrantino possono avere un potenziale di invecchiamento superiore ai 15 anni, la lunga permanenza prima in botte e poi in bottiglia è anzi fortemente consigliata perché favorisce la polimerizzazione dei tannini: il risultato è una astringenza meno aggressiva e spigolosa.
Capite insomma che basare l’intera produzione della tua azienda sul recupero e valorizzazione dell’uva Sagrantino è una scelta coraggiosa ed economicamente onerosa, oltre che un atto di vero amore nei confronti delle proprie origini. Dopo un progetto di ricerca durato dieci anni, Caprai è riuscito persino a coltivare una inedita variante a bacca bianca dell’uva Sagrantino, recuperando un gene recessivo tramite autofecondazione delle piante in vigna. Ma tornando al rosso, l’azienda è stata forse la prima a credere nelle potenzialità del vitigno per la vinificazione di vini rossi secchi potenti ma eleganti, ed oggi è riuscita a posizionare il Sagrantino “Collepiano” sui 30 euro e il “25 anni” sui 50 e passa. Possiamo dire, senza timore di essere smentiti, che sono prezzi importanti. Occorre sempre considerare le alternative, con 30 euro cominci a comprare dei Brunello o dei Barolo. Che sono brand, passatemi il termine, con maggiore blasone; voglio dire, “suonano” persino alle orecchie dei non appassionati, e anche le bottiglie più commerciali di queste tipologie sono comunque un gran bel bere. Ma l’ambizione in sé la considero una cosa positiva, e di anno in anno spetta sempre al mercato dire se è giustificata. A me i Sagrantino Arnaldo Caprai piacciono molto.

Voglio dire anche un’altra cosa che mi sta a cuore. Concettualmente adoro il fatto che il Sagrantino sia tipico di quella particolare zona, nel caso specifico Montefalco e comuni limitrofi. In tali casi si parla di vitigni autoctoni: significa semplicemente che sono originari e rappresentativi di un preciso territorio; per varie ragioni crescono solo lì, anziché adattarsi e dare buoni frutti ovunque come i più noti e diffusi vitigni internazionali. A differenza del Cabernet Sauvignon o del Merlot, se il Sagrantino lo pianti da un’altra parte probabilmente neanche porta a vendemmia i grappoli. E se lo fa, non è detto che riesci a vinificarli e ottenere qualcosa di qualitativamente valido.
E mi piace ancora di più quando un vitigno autoctono ha dei tratti inequivocabilmente estremi, perché ciò rende il vino che se ne ottiene molto riconoscibile e gli conferisce una precisa personalità. A patto che chi coltiva e vinifica una simile uva lo sappia fare, naturalmente (altrimenti il vino rischia di fare solo schifo). E per arrivare a farlo, proprio come nel caso del Sagrantino, serve tempo, ricerca e passione autentica. Persino ostinazione, oserei dire. Insomma devi aver rinunciato a percorrere strade più dritte e sicure, in nome di un vino (e di un’idea) che per essere apprezzato fino in fondo richiede a chi lo beve maggiore motivazione e sensibilità.
L’Italia è per fortuna piena di storie così, di vitigni che stavano sparendo e che sono stati riscoperti da viticoltori che, anno dopo anno e tentativo dopo tentativo, hanno cercato di salvarli dall’oblio e valorizzarli attraverso pratiche enologiche che hanno portato alla produzione di vini marcatamente territoriali, che hanno un valore anche e soprattutto in quanto testimonianza di identità e orgoglio contro l’omologazione che imporrebbe il mercato e la logica imprenditoriale.
Secondo il mio personale modo di vedere e vivere la faccenda dunque, non c’è partita. Ci sono due archetipi: i vini provinciali, da uve autoctone, e i vini cosmopoliti, da uve internazionali; tra i due, preferisco di gran lunga i primi. Poi ci sono infinite sfumature nel mezzo, e altrettante opportune precisazioni che andrebbero fatte. E’ chiaro che sto volutamente estremizzando. È chiaro che la mia è una scelta di parte, una romantica opzione “a priori” a favore dei vitigni rappresentativi di uno specifico territorio.
Ma se dal territorio passiamo al bicchiere poi dipende, ci sono dei Supertuscan oggettivamente strepitosi e di qualità superiore. Adoro “Le serre nuove dell’Ornellaia”, e con mio padre gli ultimi anni della sua vita abbiamo passato in rassegna il Sassicaia e il Solaia. Vini d’impronta bordolese, ottenuti per lo più da uve di vitigni internazionali. Io preferirei la vinificazione di una singola varietà d’uva (in purezza), e in quanto al secondo aspetto mi sono già ampiamente espresso; ma chi se ne frega del “a priori”… è imbarazzante quanto sono buoni, e mi piacerebbe avere la possibilità di berli tutti i giorni!


Insomma ritengo il mio un atteggiamento sereno e laico sulla faccenda. Ho le mie preferenze, ma non faccio fatica a riconoscere i meriti nell’altro campo, quando li incontro. Ciò vale anche per il Syrah e i vini ottenuti da questo vitigno, che “a priori” ammetto di detestare.
Con quel nome un pò esotico, che la gente ama pronunciare pur non sapendo esattamente quale sia la giusta pronuncia (Sirah, Shiraz, Scirah e via così). Piace a chiunque, semplicemente perché di solito è fatto con quel preciso scopo. Spesso lo descrivono come un vino profumato, estroverso, ammaliante. Tre aggettivi che in questo caso per me potrebbero benissimo tradursi con ruffiano, superficiale, piacione. Un vino facile, il più delle volte. Non c’è molto da capire, in un bicchiere di Syrah. Lo trovo poco stimolante, tutto qui. Eppure, quando ne trovo uno davvero buono, non faccio fatica a riconoscerne la piacevolezza. E a chiederne un altro calice.
Avete presente il film Sideways del 2004, tradotto in italiano con il titolo “In viaggio con Jack”? Se non lo avete ancora visto, e vi piacciono le suggestioni legate al mondo del vino, mi permetto di consigliarvene la visione. E’ un road movie ambientato tra i vigneti della Santa Ynez Valley, in California (da non confondersi con il mio road trip tra i vigneti di Montefalco e Montalcino). Parla di amicizia e amore, maturità e superficialità, aspirazioni ed insicurezze. E di vino, naturalmente.
Miles, il protagonista (interpretato da un clamoroso Paul Giamatti), come racconta in questa scena ama il Pinot Nero; ma per qualche ragione detesta i vini da uve Merlot … “Io non bevo nessun cazzo di Merlot!”… Ecco, io ho più o meno la stessa repulsione per i Syrah.
Quindi se chi mi conosce un giorno volesse regalarmelo, beh … sappiate che deve essere proprio uno di quelli buoni (Penfold Bin 28 o superiore, please)!
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