Wolfpack of two. La prima autobiografia ufficiale di una band che non è mai nata.

Ho già raccontato parecchio dei miei inizi come batterista in un precedente articolo del blog, postando anche i progetti del box insonorizzato che ho costruito nell’appartamento in cui vivevo. Il racconto di anni più recenti lo inizierei precisando che, dovendo traslocare in un’altra casa (ma sempre al terzo piano di un condominio…), mi guardai bene dal rifare la stessa follia. Semplicemente stavolta non ne avevo le energie, con un figlio in arrivo e ben altri problemi a cui dedicare tempo e risorse. Ma non volevo mollare, pensai quindi che potesse essere una buona soluzione la edrum, ovvero la batteria elettronica.

A questo punto della storia entra nuovamente in ballo mio cugino (a proposito, che treno… guardate qua), che vendeva la sua: un modello della Roland, con molte più funzionalità rispetto a quelle che mi sarebbero realmente servite e per giunta in ottimo stato. E’ stato un buon acquisto, anche se devo dire che i sentimenti sono ambivalenti. Da un lato hai un feeling molto diverso rispetto a una batteria acustica: è difficile da spiegare ma la batteria ha un corpo, c’è uno spazio fisico con dei volumi ben precisi davanti al tuo sgabello. Quello spazio è come se fosse casa tua, ed è una parte non trascurabile dell’esperienza di suonare la batteria. Questa dimensione la vivi in maniera spiazzante, quando hai a che fare con dei piatti di gomma grandi meno della metà di quelli a cui sei abituato o con dei sottili pad, invece che con i tuoi amati tamburi di cui conosci ogni sfumatura e imperfezione.

Dall’altro la batteria elettronica, se dotata di una buona centralina, ha dei suoni sorprendentemente realistici, in grado di simulare alla perfezione quelli di una batteria vera. E ovviamente ti risolve un sacco di problemi, perché esce tutto in cuffia. Le bacchette sui piatti di gomma fanno rumore, idem le meccaniche dei pedali (soprattutto quando pesti sul serio); ma insomma nessuno in condominio può a buon diritto romperti le scatole se la suoni a orari decenti. Puoi variare lo stile dei suoni, le accordature, addirittura riconfigurare e personalizzare i singoli elementi del set; in pratica è come avere decine di batterie in una sola: un bel giocattolino digitale, non c’è che dire! Ci puoi anche suonare i pezzi playalong, hai il metronomo integrato e degli ottimi programmi di allenamento già preimpostati (per gli studenti più solerti, io mai usati). Insomma: perfetta per studiare, insostituibile se devi farlo in un condominio.

Come ho detto, negli anni mi è capitato di fare un paio di saggi (uno dei quali è visibile qui)e in genere sono questi i primi momenti in cui suoni davanti ad altre persone, anche se su basi musicali. Questo è precisamente il primo step dell’intera faccenda, suonare in pubblico su pezzi registrati. Per la verità Amedeo, il mio maestro, mi aveva dato anche l’opportunità di suonare live: si trattò di 3 brani pop abbastanza semplici, suonai con la sua batteria elettronica insieme ad altri maestri; gli allievi erano quelli che cantavano, frequentavano una delle scuole con cui collaborava. People help the people di Birdy e Per me è importante dei Tiromancino andarono bene. Il terzo brano (Unforgivable sinner di Lene Marlin) aveva un groove che per l’epoca trovavo piuttosto impegnativo (ho sempre pensato che fosse di una drum machine), ero talmente concentrato che a un certo punto intorno a me non sentii più il suono degli altri strumenti: alzai lo sguardo e negli occhi del bassista, che intanto provava non senza imbarazzo a metter qualche nota sotto la mia batteria, incrociai un’espressione interrogativa del tipo “ma che cazzo fai… il pezzo è finito, hanno pure fatto l’applauso”.

Dopo 3 anni di studio con Amedeo, presi una pausa e continuai per qualche tempo per conto mio. Grazie alla mia batteria elettronica mi mettevo lì a studiare dei brani che mi piacevano e ci suonavo sopra. E’ un esercizio divertente, tuttavia non fai reali progressi e da solo non basta. Poi il mio amico Simone iniziò a studiare il basso e venne fuori la possibilità di fare laboratorio presso la sua scuola. Ecco lo step successivo, il grande salto: suonare con altri. E qui si è aperto un mondo.

La prima volta che ci vedemmo per fare laboratorio, Giuliano – chitarrista professionista e ottimo maestro – ci propose tanto per iniziare Have you ever seen the rain, un pezzo dei Creedence Clearwater Revival. Lo analizzammo insieme a lui, lo studiammo a casa per conto nostro, poi lo portammo la volta dopo e lo montammo, facendo due o tre take (come si dice nel gergo di quelli forti). In linea di massima è così che funziona un laboratorio musicale. Devo dire che andò sorprendentemente bene: il pezzo, pur con qualche ovvia imperfezione, girava e non suonava affatto male. Così alla seconda ci chiese se avevamo dei brani che ci sarebbe piaciuto provare a fare, compatibilmente con il fatto di essere in tre e con il nostro (modesto) livello. Io ovviamente ce l’avevo: Comfortably Numb, di cui ho scritto qualcosa qui. E’ stata la prima canzone su cui mi sono cimentato, chiuso nel mio box quando avevo comprato da poco la batteria e non avevo ancora iniziato a prendere lezioni. Poterla finalmente suonare con qualcuno era l’occasione di mettere alla prova tutto il lavoro “matto e disperatissimo” dei primi anni, e di verificare che fossi effettivamente in grado di “portarla” suonando con altri ragazzi (anziché su una base musicale).

Comfortably Numb cover (chiaramente tutti i diritti spettano agli autori del brano…)

Il laboratorio andò avanti 3 anni in tutto, avremo fatto una trentina di pezzi. Tutti a uno stadio molto avanzato, ma molti non finiti perché comunque il povero Giuliano, oltre a dirigerci, doveva pure cantare e capite bene che cantare Zombie dei Cranberries, solo per dirne una, per un uomo non è una cosa banale (non lo è neanche per una donna, in effetti). Insomma il fatto di essere in tre era molto impegnativo e formativo, perché quando sei solo chitarra-basso-e-batteria devi essere ritmicamente molto compatto: si sente subito se c’è qualcosa che non va, o per meglio dire qualcuno (e quel qualcuno o ero io o Simone, di certo non Giuliano). Ma il power trio, se sei solo uno studente, ti preclude anche la possibilità di fare tanti pezzi perché serve la tastiera, o una seconda chitarra, o una voce appropriata per poter perfezionare e finire davvero i brani.

Comunque nel corso del laboratorio ho iniziato a misurarmi con pezzi davvero impegnativi, e con le interpretazioni di alcuni mostri sacri dello strumento. Il che forse testimonia che un po’ di strada, nel mio piccolo intendiamoci, sono riuscito a farla. Abbiamo fatto, bene o male, uno o due pezzi di molte delle mie band preferite: Pink Floyd ovviamente, ma anche Beatles, Eric Clapton, ACDC, Red Hot Chili Peppers e Muse, per dirne anche qualcuno più recente.  Gli ultimi due pezzi su cui abbiamo lavorato, posto che non riesco ancora a farli in modo soddisfacente e continuo tuttora a lavorarci su, sono di due batteristi pazzeschi, due veri fenomeni della batteria rock (e non solo) che non hanno bisogno di presentazioni. In Rock n’roll dei Led Zeppelin troviamo John Bonham; su questo pezzo la difficoltà principale sono i 170 bpm, ma per fortuna come dice il mio amico batterista Mauro “Anche 150 va bene, più veloce sennò è difficile pure per chi la suona con te”. Intro e assolo finale di batteria sono probabilmente i più famosi e iconici del rock, impararli è stata una bella soddisfazione. L’altra canzone è Message in a bottle dei Police, che è un pezzo dove mi è capitato persino di cascare dallo sgabello mentre provavo a impararla. Ogni strofa ha un groove diverso e la cassa è dove quasi mai te l’aspetti, colori sul charleston in continuazione, accenti di crash e splash improvvisi, passaggi ogni volta diversi. Come se non bastasse, anche qui la velocità di crociera è sui 150. Stuart Copeland è un fottuto imprevedibile genio.

Breve inciso: a furia di tenere in mano le bacchette, la edrum non mi bastava più. Così ho dato una ripulita a una piccola cantina e l’ho adibita a saletta dove poter studiare. Stavolta è stato tutto più semplice, rispetto alla costruzione del box: essendo semi interrata, l’isolamento acustico su 3 dei 4 lati veniva da sé; ho dovuto soltanto far mettere in opera dei pannelli di cartongesso e comprare le doppie porte insonorizzate per isolare bene anche il quarto. Anche stavolta risultato strepitoso, e qui davvero riesco a studiare senza remore. Per l’umidità, che è inevitabile, ci sono comunque dei rimedi (anche se parziali). Quando mi chiudo lì sotto pesto di brutto. Come potete vedere, la batteria è quella di sempre. Non potevo più andare avanti solo con quella elettronica, sapendo di avere quella vera a cui sono molto legato smontata da qualche parte. Forse un giorno, quando mi sentirò all’altezza, comprerò anche una batteria migliore. Per il momento la mia vecchia batteria “che costava meno di un telefonino” va ancora bene.

Tornando al tema del post, e concludendo, voglio dire che il laboratorio nel percorso di apprendimento di uno strumento musicale è un momento fondamentale. Suonare la batteria non significa suonarla da soli, sopra una base musicale. Saper suonare significa suonare con qualcun altro, montare la tua parte con la sua e far girare tutto, far andare il pezzo. Ha molto a che fare con la comunicazione, l’espressione, l’intesa che si instaura e l’empatia che si prova sul momento. Quella è la vera magia, ed è una esperienza totalmente diversa. La differenza è la stessa che c’è tra guidare un autobus o esserne un passeggero. Quando suoni su una base o su una canzone per i fatti tuoi, hai già dei riferimenti in relazione ai quali suonare. Quando invece suoni con gli altri sei tu il riferimento, e questo è drammaticamente vero nel caso del batterista. Gli altri si tarano sul tempo che porti tu, una piccola incertezza può compromettere il pezzo; si sente subito, e poi psicologicamente riprendersi non è neanche facile. In ogni caso non puoi farti paralizzare dalla paura di sbagliare, e le imperfezioni fanno parte del gioco: quell’autobus lo devi guidare.

Questa cosa l’ho capita proprio suonando con Giuliano e Simone, durante il laboratorio. E ho anche avuto il privilegio di provarla dovendo gestire le pressioni legate al fatto di suonare davanti ad un pubblico. Il nostro primo saggio come laboratorio, al termine del primo anno, è durato una quindicina di minuti; presentavamo quattro canzoni, la cosa inevitabilmente somigliava molto ad un mini concerto e potete immaginare che per me ha coinciso praticamente con un punto di arrivo, la realizzazione di un sogno. Anche perché credo che sia venuta abbastanza bene, giudicate voi stessi. Dovrò sempre ringraziare il maestro Giuliano, per questa piccola-ma-grande soddisfazione che mi sono tolto.

In effetti, gasati dalla performance, io e Simone iniziammo pure a crederci. Un po’ per scherzo un po’ sul serio, ci era già venuto in mente il nome giusto per la band (“Wolfpack of two”, storpiando una espressione ricorrente di Alan, uno dei protagonisti della trilogia “Una notte da leoni”); e ci dicemmo che occorrevano altre esibizioni live, che dovevamo assolutamente fare altre serate: l’idea era trovare un locale e diventarne la house band, come i primi Pink Floyd all’Ufo Club o i Doors al Whisky a Gogo. Poi da lì sarebbe venuto tutto di conseguenza: successo, soldi, groupie, Glastonbury, chitarre sfasciate e tutto il resto.

Che ci crediate o no, chiedemmo in giro e ricevemmo due proposte. La prima venne da Saverio, un amico di Simone che ha un negozio di abbigliamento casual dall’atmosfera molto rock; evidentemente pensava che le nostre performance potessero in qualche modo contribuire alle vendite di t-shirt e calzini (si disse pure disposto ad ipotizzare un compenso). Ci sembrava perfetto, ma avevamo un problema. Giuliano, nonostante le nostre avances (arrivammo persino a offrirgli il 50% dei futuri incassi della band, dopo averlo inutilmente implorato di unirsi a noi “spontaneamente” per un paio di mesi buoni), aveva altri progetti. O forse non ci prese sul serio, come dargli torto. Così anche il secondo contatto, un pub di Frascati di proprietà di una cliente di Simone, non si concretizzò e l’intero progetto fallì miseramente prima ancora di vedere la luce.

Al momento il laboratorio è fermo e quindi la band è ufficialmente sciolta, come si dice in questi casi. Nel rutilante mondo del rock ora tutti scommettono su quella dei fratelli Gallagher, ma magari la prossima clamorosa reunion sarà quella dei Wolfpack of two: vedremo… Io cmq sono soddisfatto di quello che ho combinato, considerando che non ho mai avuto modo di dedicare alla batteria tutto il tempo che le andrebbe dedicato. E che ho iniziato da solo (come ho raccontato nel precedente post), senza nozioni e suonando una batteria che costava meno di un telefonino con sopra dei dischi di gomma per evitare che la vicina di appartamento mi denunciasse ai Carabinieri.

2 pensieri riguardo “Wolfpack of two. La prima autobiografia ufficiale di una band che non è mai nata.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: