Vitigni autoctoni laziali, ecco il Nero Buono: chi vincerà il derby di Cori?

Dopo i Castelli Romani, ecco un altro territorio molto interessante per la produzione vitivinicola nel Lazio. Cori è un piccolo paese il cui territorio si distende ai piedi dei Monti Lepini, praticamente equidistante tanto dal mare quanto dai Colli Albani (una quarantina di km, dunque anch’esso non tanto lontano da casa mia). La sua notorietà nel mondo del vino è in buona misura legata a un misterioso vitigno a bacca rossa dal nome accattivante: il Nero Buono.

Non ricordo di preciso in quali circostanze ho scoperto questa cosa, di certo già da molti anni conoscevo alcune etichette di bottiglie ottenute dalla vinificazione in purezza di questa uva, e conoscevo di riflesso anche solo per sentito dire i loro produttori. Qualche giorno fa un caro amico mi ha proposto un giro per vigne e cantine da farsi senza allontanarsi troppo da casa: è stata l’occasione per venire qui ed approfondire nel modo che ora vi racconterò la mia passione (una autentica “fissa”) per le uve autoctone.

A Cori infatti hanno la fortuna di avere tra le mani (o meglio nelle vigne) una varietà sfuggente e sconosciuta al grande pubblico, introvabile al di fuori degli angusti confini di questo areale. Il Nero Buono è un vitigno realmente autoctono e dunque fortemente identitario. Ha origini oscure persino per gli abitanti del luogo, il che lo rende particolarmente affascinante.

Ho più volte scritto in questo blog della mia spiccata preferenza per gli autoctoni monovitigno, citando sopra tutti il Sagrantino e l’areale di Montefalco in Umbria, dove pure in passato ho visitato aziende vitivinicole ai vertici nazionali per storia e qualità dei vini. La zona di Cori presenta alcune analogie con Montefalco, soprattutto per il modo lucido e ostinato con cui alcuni produttori stanno sperimentando sul vitigno originario e caratteristico del loro territorio.

A Cori, come a Montefalco, hanno anche varietà autoctone a bacca bianca. In Umbria il Grechetto, qui il Bellone. Ma a parte che, di base, la mia preferenza è nettamente a favore del rosso, voglio far presente anche che il Bellone è un vitigno sì locale, ma diffuso in diversi comuni di questa parte del Lazio. Uve Bellone, tra le altre varietà a bacca bianca, si coltivano proprio ai Castelli Romani oppure fin sulla costa, a ridosso del litorale: a Nettuno ad esempio assume il curioso nome di Cacchione. La stessa cosa vale per il Grechetto.

Il Nero Buono no, davvero non esiste al dei fuori dei ristretti confini del comune di Cori e zone limitrofe, dunque parliamo di una varietà a cui gelosamente e con lungimiranza il territorio può legare il suo nome. Ed è per lo più sui vini da essa prodotti che si concentra la mia attenzione, anche se abbiamo avuto l’occasione di assaggiare anche altri vini.

Ci siamo recati presso due realtà molto note del territorio ma anche molto diverse tra loro. La prima è l’Azienda Agricola Marco Carpineti, splendidamente localizzata nel fianco dei rilievi collinari lungo la strada provinciale che da Velletri conduce al paese di Cori. I locali per l’accoglienza sono al piano superiore, la cantina, le aree operative e il punto vendita un livello più in basso. Entrambi sono in posizione dominante rispetto alle vigne sottostanti e affacciano verso il Mar Tirreno.

La storia dell’azienda inizia nell’86 e già otto anni dopo, nel 1994, la conduzione delle vigne viene convertita ad agricoltura biologica. Dunque niente diserbanti, pesticidi o fertilizzanti chimici: le uve vengono raccolte a mano e tutto viene fatto nel rispetto della natura del luogo, come ad esempio l’uso del cavallo nei lavori tra i filari immortalato nell’iconografia aziendale. Negli anni il vigneto passa dagli originali 4 ettari ai 70 attuali e alla tenuta Capolemole se ne aggiungeranno altre 3 in zone non lontane, e comunque limitrofe al territorio del comune di Cori.

La ragazza che ci accoglie ci dice che un quarto della produzione complessiva dell’azienda è rappresentato oggi dagli spumanti metodo classico, ottenuti rigorosamente da uve Bellone e Nero Buono. Sono commercializzati con il nome di Kius, un progetto nato nel 2010 e che ha avuto un formidabile riscontro qualitativo e di vendite. Altra caratteristica rappresentativa della vocazione biologica di Carpineti è il fatto che le fermentazioni sono tutte innescate dai lieviti spontanei, cioè quelli presenti sull’uva e in cantina, il che (senza entrare troppo in dettagli tecnici) rappresenta un ulteriore elemento di tipicità territoriale. Concordiamo un programma di 4 assaggi, purtroppo non è possibile degustare i rossi della linea premium, in compenso partiamo con il botto.

Infatti il primo calice è di Kius pas dosé, uno spumante Metodo Classico ottenuto da sole uve Nero Buono. Dunque un “blanc de noirs” (uve rosse vinificate in bianco) e senza aggiunta di “liquer d’expedition” dopo la sboccatura, tutte caratteristiche che letteralmente adoro quando parliamo di bollicine perché rendono il prodotto più sbilanciato rispetto al classico brut, conferendogli un sorso più tagliente, dunque molto particolare (nel bene e nel male, non a tutti piace).

La bottiglia che assaggiamo è millesimata 2015 e sboccata ad agosto del 2022, dunque un bel pò sui lieviti e un altro anno in bottiglia. La memoria va quasi subito alla monumentale degustazione di qualche tempo fa presso Scacciadiavoli a Montefalco (la racconto qui): anche in quella circostanza fui conquistato da un metodo classico fatto con uve rosse locali (in quel caso il mitico Sagrantino) anziché con le canoniche e onnipresenti uve internazionali Chardonnay e Pinot.

Proseguiamo con il Collesanti 2022, Bellone in purezza vinificato in acciaio, con una tanto spiccata quanto inattesa nota iodata e di smalto. L’attacco è sapido e il sorso è tutto modulato su una lunga scia minerale. 13.5 gradi, dunque pienamente un bianco da pasto.

Terzo assaggio, altro bianco però del tutto spiazzante. Nzù, anch’esso Bellone in purezza ma vinificato in anfore di terracotta (altro deja vu che rimanda proprio a Montefalco). 14.5 gradi per un vino persino robusto e complesso, con un naso che a me ricorda le note animali e di cantina del Trebbiano à là Emidio Pepe per intenderci, con continui e persistenti rimandi gusto-olfattivi.

Chiude la batteria una bottiglia della linea più tradizionale dell’azienda vale a dire il Capolemole rosso, che però è un blend. “L’originalità del Nero Buono, l’eleganza del Cesanese e la robustezza del Montepulciano”… praticamente una ricetta (concettualmente non amo i blend). Un vino buono da bere, per carità; meno interessante però da capire e da raccontare, almeno per me che attraverso gli autoctoni monovitigno voglio rintracciare i tratti identitari di un territorio e le peculiarità della sua uva più rappresentativa.

Salutiamo e ci rimettiamo sulla provinciale; superato l’abitato di Cori, dopo un paio di curve, arriviamo al Cincinnato Wine Resort. La cantina e le vigne sono qualche kilometro più giù, questi sono gli spazi destinati all’ospitalità e alla ristorazione, il ristorante ha una bella terrazza vetrata da cui si vede fino al mare e scenograficamente affacciata sul vigneto.

Troviamo un sontuoso menu a base di prodotti del territorio, ognuno dei quali abbinato a uno dei vini della tenuta. Una formula molto divertente, con 60 euro mangi 3 portate ciascuna abbinata a un vino della gamma Cincinnato, in un wine resort di concezione moderna ma comunque legato al territorio. Per intenderci, invece del classico brasato al Barolo lo chef giustamente propone il brasato al Nero Buono: un piatto che ha subito catturato la nostra attenzione anche per i possibili abbinamenti che offre in quanto strutturato e succulento, e che non ha tradito le nostre aspettative.

Anche nel caso di Cincinnato, la storia della cantina è indissolubilmente legata al vitigno Nero Buono, intorno a cui ruota una gamma completa e impreziosita da sperimentazioni molto interessanti. Cincinnato nasce come cantina sociale addirittura nel 1947, a testimonianza di una condotta illuminata e scelte orientate alla qualità ci sono gli oltre 500 ettari attuali di vigne, molte condotti dai soci in regime di agricoltura biologico. Tutto questo non è scontato, quando parliamo di 250+ coltivatori.

L’ampiezza della produzione oggi va dalle bollicine al passito, passando ovviamente per i bianchi e i vini rossi da uve 100% Nero Buono, coniugando un alto livello qualitativo con una politica di prezzi decisamente abbordabili. Il risultato sono dei vini con un eccellente rapporto qualità prezzo, basti dire che il rosso di punta qui in tenuta non arriva a costare più di 18 euro.

Come aperitivo anche qui partiamo da uno spumante Metodo Classico, uve Bellone millesimato 2017 e sboccato a maggio di quest’anno. Un prodotto franco, naso fragrante, stilisticamente esemplare e ottimo come aperitivo o con antipasti leggeri.

Con le portate ci concentriamo sui rossi in purezza da uve Nero Buono. Il primo è l’Ercole 2020, un vino che conosco da molti anni e ribevo puntualmente molto volentieri e con gran soddisfazione. 12 mesi in botte e 8 di affinamento in bottiglia, al naso frutta matura, pout pourri e spezie pungenti come chiodi di garofano e cannella. Sorso pieno e saporito, buona intensità e persistenza.

Onoriamo il brasato con il Kora, la riserva di Nero Buono annata 2019 con elevazione in barrique di 24 mesi e altrettanti di affinamento in bottiglia, 14 gradi alcolici. Rispetto all’Ercole, il corredo olfattivo ha una dominante scura di sottobosco ma anche folate di spezie dolci, una nota alcolica più alta e piacevoli refoli finali di liquirizia. In bocca è caldo e intenso, con rimandi gusto-olfattivi del tutto coerenti e di lunga persistenza.

Terminato il pranzo chiediamo di completare la giornata con una visita alla scenografica barriccaia, situata al piano inferiore, dove scendiamo per dare un’occhiata fugace e scattare qualche foto.

Considerazioni finali. E’ stato un bel derby tra due realtà molto diverse, una di matrice familiare l’altra cooperativa, dunque quasi agli antipodi per storia aziendale, dimensione produttiva e approccio al mercato. Due diverse espressioni dello stesso piccolo areale, ma entrambe impegnate a sperimentare, valorizzare al massimo i gioielli enologici che rendono così unico il territorio, con interpretazioni dei vitigni locali, in particolare il Nero Buono, in perfetto equilibrio tra tradizione e modernità.

Chi ha vinto il derby di Cori, a cui faccio riferimento nel titolo dell’articolo? Ovviamente non darò una risposta: era una domanda retorica, un titolo a effetto, al massimo un espediente narrativo. Per quanto mi riguarda il verdetto è rimandato al momento in cui assaggerò l’Apolide, Nero Buono in purezza elevato in barrique comprato da Carpineti (il rosso di punta dell’azienda, che purtroppo non era in degustazione), e avrò ribevuto il Kora di Cincinnato, di cui ho appena detto (e di cui, forse, l’unica cosa che non mi piace è la bottiglia). Ma in fin dei conti ognuno è libero di assaggiare, degustare e dire la sua.

2 pensieri riguardo “Vitigni autoctoni laziali, ecco il Nero Buono: chi vincerà il derby di Cori?

  1. Ciao, grazie per il tuo commento e complimenti per il tuo blog. Nell’articolo leggo solo il Moscato D’Asti, che certamente può essere abbinato ai dolci (personalmente lo abbino al pandoro), e il fragolino. Che però legalmente e tecnicamente non è neanche un vino, allora meglio il Brachetto, sempre di quelle zone.

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