Dopo la playlist delle esecuzioni live di Comfortably Numb e quella sulle canzoni da ascoltare in un viaggio on the road negli States, ecco quella di alcuni interessanti vini da vitigni autoctoni che mi è capitato di bere ultimamente. Confesso che mi piaceva l’espediente narrativo della playlist, e così ho pensato di trasferirlo in un articolo e su un argomento con cui non c’entra nulla in effetti. Forse, a questo punto, sarebbe più corretto parlare di drinklist… vabbè, ciancio alle bande! 😁
I vini sono stati scelti seguendo lo stesso concetto che emerge negli altri articoli della categoria Vino, vigne e cantine del blog. Sono andato intenzionalmente a cercare vini ottenuti da vitigni fortemente territoriali, le cui uve vinificate in purezza (molto spesso dallo stesso viticoltore) portano a prodotti con caratteristiche piuttosto riconoscibili e rappresentative della zona di origine e delle sue tradizioni. La maggior parte delle bottiglie in questo articolo supera di poco le 10 euro di prezzo, alcune costano anche meno.
Non sono vini di pregio, né rossi di punta delle rispettive cantine. Sono piuttosto testimonianza di (bio)diversità in un mondo che, anche nel settore del vino, tende un po’ all’omologazione dei prodotti per assecondare i gusti prevalenti. Del resto il vino è impresa, è anche normale che sia così. Ma questi vini invece sono diversi: sono frutto dell’ostinazione e della volontà di recuperare e valorizzare varietà di vite che, a differenza di quelle internazionali, al di fuori della zona d’origine praticamente non vengono coltivate, rischiando addirittura l’estinzione.
Altra avvertenza (o sarebbe meglio dire nota a margine) è che i vini di questo articolo sono tutti appartenenti alle regioni del nostro Meridione, ma in realtà l’intera penisola è caratterizzata da un ricco patrimonio ampelografico. Si potrebbe facilmente scrivere un articolo in cui per ogni regione si elencano uno o più vitigni autoctoni, ma in questo mi limito al Sud Italia. Le ragioni sono del tutto arbitrarie: è un periodo che nella pratica dell’assaggio mi sono un po’ focalizzato sui vini del sud, tutto qui. Ma davvero non ci sono altri criteri dietro questa scelta, né alcuna pretesa di rappresentare le varie tipologie o la superiorità dei vini scelti. Ci sono eccellenti autoctoni provenienti dalle regioni settentrionali e anche da quelle centrali, non è che posso comprarli e berli tutti solo per scrivere un articolo del blog.
Infine sono tutti vini rossi. In questo caso l’arbitrarietà della cosa ha invece un significato; dovendo dire se mi piace di più il rosso o il bianco, di base la mia preferenza propende naturalmente per il rosso. Una preferenza di fondo che però nulla vuole togliere alla qualità e all’interesse che hanno alcuni vini bianchi da vitigni autoctoni. Insomma bevo con molto interesse anche i bianchi, mentre verso i rosé confesso un forte preconcetto (tranne che per le bollicine).
Ma insomma, ognuno hai suoi e quello che scrivo non ha pretese di esaustività. Per quello ci sono siti professionali e portali certamente molto qualificati e autorevoli. Per ognuno dei vini bevuti, riporterò qualche informazione che trovo interessante mista a note di degustazione.
Le poche foto che seguono sono tratte per lo più dai siti dei produttori, e comunque i diritti restano interamente in capo ai rispettivi autori/editori. Ci tengo infine a precisare che le aziende citate non hanno condizionato in alcun modo le mie scelte e la mia imparzialità di giudice, né si sono lasciate andare a condotte di dubbia moralità tipo regalarmi bottiglie per influenzare la mia recensione. Tuttavia, se volessero farlo, ci tengo a chiarire che sarei ben lieto e disponibile: contattatemi… Ok, detto questo iniziamo! 🍷🍷
Regione: Molise. Vitigno: Tintilia. Già, esiste anche il Molise. Eccome se esiste! Questa cantina è certamente nota per il suo prodotto di punta, il Don Luigi. Un rosso sontuoso e opulento, ai vertici nazionali. Ma fa anche altro. Di Majo Norante è tra le cantine che hanno cercato di valorizzare il vitigno molisano più tradizionale, la Tintilia. Si tratta di una pianta da cui si ottengono vini molto colorati, in virtù della notevole carica antocianica, e di grande struttura. Stante il mio assaggio, posso confermarne l’assoluta piacevolezza.
Tintilia del Molise DOC 2018, Di Majo Norante. Rosso granato, consistente. Bouquet fruttato e speziato con note di prugna e ciliegia, folate balsamiche e sentori animali. Al palato è morbido e vellutato, sapidità e freschezza ottimamente bilanciate da un adeguato tenore alcolico. Intenso, abbastanza persistente. Un vino piacevolissimo e sorprendente allo stesso tempo.

Regione: Puglia. Vitigno: Susumaniello. Sarebbe stato facile citare Primitivo o Negramaro. La verità è che il fatto che il primo sia autoctono è molto controverso (sembrerebbe fortemente imparentato con lo Zinfandel californiano), e comunque entrambi sono ormai molto noti; nel rock si direbbe che ormai da tempo sono usciti dall’underground e diventati mainstream, insomma non hanno bisogno di presentazioni. A mezza via c’è l’Uva di Troia, ma non è neanche di questo che parliamo oggi. Invece il Susumaniello fino a poco tempo fa non lo conoscevo affatto. Me ne furono regalate un paio di bottiglie qualche anno fa, e ne ho comprate ancora di recente.
La Puglia ha un base ampelografica pazzesca, e una produzione tradizionalmente all’insegna delle grandi quantità. Però negli ultimi 15 anni ha anche fatto emergere viticoltori e aziende che invece hanno puntato sulla qualità, per valorizzare al massimo le grandi potenzialità degli opulenti rossi pugliesi. Il Susumaniello è un vitigno molto produttivo, uno di quelli con cui si producevano grandi quantità di vino che venivano esportate al nord per tagliare i rossi industriali e renderli meno anemici. Ora invece qualcuno punta a vinificarlo in purezza in regione, conferendogli una dignità e un profilo riconoscibile. E’ un vitigno che non pare avere clamorose potenzialità, ciò nonostante restituisce vini di buona struttura, media complessità e in genere molto piacevoli.
Salento IGT Susumaniello 2019, Masseria Ficarigna. Rosso granato trasparente. Archetti fitti e regolari. Al naso spiccano note di prugna e mora su un tappeto floreale corredato da sbuffi iodati. Sorso molto vivace e saporito grazie a una bella freschezza; alcol e tannino presenti ma misurati, buona intensità e persistenza aromatica.

Regione: Basilicata. Vitigno: Aglianico. I viticoltori dell’areale del Vulture, un antico vulcano spento, già da tempo hanno scelto con consapevolezza la via della qualità. E hanno saputo anche promuoverla raccontandola in prima persona, mettendoci la faccia. Ricordo forse una decina di anni fa di aver partecipato ad una piacevolissima serata in cui ce n’erano tre che presentavano personalmente le loro realtà, per lo più familiari, e questo aggiunge certamente una nota di fascino allo storytelling aziendale. Il vitigno Aglianico per certi versi somiglia al piemontese Nebbiolo: se ne ottengono vini importanti per tannino, struttura e complessità. D’Angelo è uno dei produttori di riferimento, ma potrei benissimo citare anche Cantine del Notaio o Fucci.
Aglianico del Vulture DOC Caselle 2011, D’Angelo. Rosso granato scuro, mattone. Unghia dai riflessi aranciati. Non perfettamente limpido, archetti fitti e regolari, consistente. Naso interessantissimo caratterizzato da una netta dominante animale, cuoio e pellame, e una nota alcolica forse un po’ sopra le righe. In bocca l’attacco è all’insegna delle sapidità, poi è caldo, intenso e persistente. Tannino vigoroso ma privo di ruvidità. Perfetta rispondenza gusto-olfattiva.

Regione: Calabria. Vitigno: Gaglioppo. Ecco il vitigno autoctono calabrese per antonomasia, i vini vengono imbottigliati con la denominazione Cirò. Sono particolarmente affezionato all’azienda Librandi, il cui titolare ricordo di aver conosciuto in occasione del mio terzo Vinitaly. Persona fiera, orgogliosa del suo vino, ma allo stesso tempo molto amichevole e alla mano: un ottimo testimonial. Il Duca San Felice è la bottiglia che bevo più spesso e vi sfido a trovare un altro rosso di questo livello a questo prezzo (meno di 10 euro).
Cirò rosso classico DOC Segno 2019, Librandi. Rosso granato tenue con riflessi aranciati. Bouquet floreale e speziato arricchito da note terrose. Sorso sapido, ben bilanciato dall’alcolicità e dal tannino; piacevoli aromi di bocca, modulati anch’essi su note speziate e di rabarbaro, che invitano ad un immediato riassaggio. Un vino di media complessità ma di grande piacevolezza

Regione: Sicilia. Vitigno: Nerello Mascalese. Vale un pò lo stesso discorso fatto per la Puglia. Il rosso top of mind è il Nero d’Avola. Ma a parte che il vero nome sarebbe Calabrese (e quindi altro che siciliano), il Nero d’Avola è coltivato ovunque in questa vasta regione; quindi, pur se identificativo della Sicilia, va detto che i vini che se ne ottengono sono soggetti a una grande variabilità in base alla zona di origine: non è mica tanto vero, ad esempio, il luogo comune secondo cui in un bicchiere di Nero d’Avola trovi sempre quella “puzzetta ferrosa” che lo caratterizza ovunque venga coltivato.
Molto più interessante e specifico è il discorso sull’areale dell’Etna, che molti dicono somigliare nientemeno che alla Borgogna e le cui potenzialità hanno saputo attirare anche capitali esteri. Qui il vitigno principe è il Nerello Mascalese, dal disciplinare sono ammessi piccoli saldi di Nerello Cappuccio (altro autoctono di zona). Le piante sono coltivate sulle pendici settentrionali del vulcano, tra i 600 e i mille metri di altitudine, i suoli conferiscono una pregiata mineralità ma ogni contrada ha le sue sfumature espressive; i vigneti ad alberello sono una particolarità paesaggistica irresistibile e le piante spesso sono prefillosseriche: a causa dell’altitudine e del suolo sabbioso, il parassita qui ha risparmiato molte vigne; le cui viti, quindi, superano spesso i 100 anni di vita. Nella mia cantina c’è ben riposta una bottiglia di Vigna di Don Peppino 2009 di Tenuta delle Terre Nere, che però non mi andava ancora di aprire. Così ho bevuto un “fratello minore”, ma con caratteristiche di tutto rispetto.
Etna rosso DOC 2018, Tenuta delle terre nere. Rosso rubino trasparente, lievi riflessi granata.
Naso elegante, fruttato e floreale con una delicata speziatura; rosa, piccoli frutti rossi e una lieve nota terrosa. Perfetta rispondenza tra gli aromi di bocca e la fase olfattiva. Sorso all’insegna di una piacevole scia minerale, tannino eccellente e raffinato. Caldo, intenso e persistente. Un vino di classe.

Regione: Sardegna. Vitigno: Monica. Altra terra ricchissima di autoctoni. Tra i rossi basti citare il famoso Cannonau, o gli altri leggermente meno noti ma certamente sdoganati Carignano e Bovale. Ognuno meriterebbe un assaggio, ma non conoscevo il Monica, originario della sola zona del Sarrabus. E quindi mi sono misurato volentieri con una bottiglia di una delle migliori cantine sarde e nazionali, della serie un nome una garanzia, che non ha fatto altro che confermare quanto di buono già pensavo dei vini di questa splendida isola.
Monica di Sardegna Superiore DOC Iselis 2017, Argiolas. Un bel rosso granato luminoso. Corredo odoroso con prevalenti sentori di frutta rossa e spezie: marasca, prugna e note di cannella. Sorso piacevole ed avvolgente, ritorni di bocca corrispondenti all’olfattivo e in perfetto equilibrio. Buona piacevolezza e persistenza.

Regione: Campania. Vitigno: Piedirosso. Altro vulcano, il Vesuvio. Anche qui tanti autoctoni tra cui scegliere. E’ stata l’occasione giusta per bere un Lacryma Christi, che viene prodotto da Uva Piedirosso. Questo vitigno ha diversi nomi (quello dialettale più accreditato è per’e palummo), tutti riconducibili a una curiosa caratteristica: la particolare coloritura rossiccia del rachide che lo fa somigliare al piede di un Colombo. Le recensioni degli stessi produttori avvertono che ci si deve aspettare un vino di medio corpo e di beva immediata, fruttato e floreale. Insomma piacevole, ma non molto di più. La bottiglia che ho scelto ha rivelato qualche sorpresa, ma per tutto c’è una spiegazione. Il disciplinare consente anche percentuali di Aglianico, e alcune delle caratteristiche emerse in degustazione mi fanno pensare a una parte di Aglianico addirittura preponderante.
In un certo senso quindi, stavolta la ricerca dell’autenticità territoriale attraverso l’autoctono monovitigno non è andata proprio a buon fine: il Lacryma bevuto non è monovitigno, e l’Aglianico (pur molto coltivato in Campania) non è prerogativa esclusiva di questa zona (né è l’unico autoctono campano). Una buona ragione per comprare quanto prima qualche altro Lacryma Christi, magari una etichetta che dichiari la monovarietà di Piedirosso (che è ciò che più mi interessava sperimentare).
Lacryma Christi del Vesuvio DOC 2019, Feudi di San Gregorio. Rosso granato tenue, luminosi riflessi aranciati. Abbastanza consistente. Profumo abbastanza intenso; una nota animale in evidenza, solo parzialmente bilanciata da sentori balsamici, fruttati e floreali. Sorso fresco e una buona scia sapida, tannino piacevole. Abbastanza persistente.

Questi piano piano me li studio e me li bevo
"Mi piace""Mi piace"